Giro di Do
I loro genitori si conoscevano
dal tempo della giovinezza. Tutti trapiantati a Roma subito
dopo la fine della guerra, in cerca di lavoro e di un
avvenire. Era quasi inevitabile che i figli diventassero
amici. Silvia e Nino avevano la stessa età; il fratello di
Nino, Marco, era un po’ più piccolo, di un paio d’anni. Nino
era un ragazzino con una zazzera folta di capelli neri,
lisci e lucidi, una pelle che sembrava sempre abbronzata e
gli occhi nerissimi con le ciglia lunghe dal “sapor
mediorientale”, come avrebbe detto, molti anni dopo, la
Nannini.
Lei, figlia unica, andava
volentieri a giocare con i due fratellini quando i suoi
genitori, ogni tanto, facevano visita ai loro genitori.
Avevano tantissimi giocattoli e del genere che non si
regalava ad una bambina, meccano, lego, automobiline, cubi
da costruzione. E poi avevano un bellissimo grammofono, da
salotto, con il mobile di radica. Passavano ore intere,
seduti per terra, a giocare tranquillamente. A Silvia i
fratellini piacevano perché non erano turbolenti come la
maggior parte dei maschietti che conosceva; non gridavano,
non si scalmanavano. Marco era molto timido e si vedeva che
adorava il fratello. Nino era simpatico, assennato, dolce
nei modi e nella voce.
Abitavano in quartieri
diversi, e quindi, in un’epoca in cui solo i “ricchi”
avevano la macchina, gli incontri tra le due famiglie erano
tre o quattro l’anno. Però gli incontri tra i ragazzi
diventarono più frequenti quando, da adolescenti,
cominciarono a muoverci da soli. A quell’epoca Nino si
comprò una chitarra e cominciò a strimpellare le canzoni di
Gianni Morandi e Rita Pavone, lanciati da Alta Pressione, il
primo programma televisivo dedicato ai “giovani”. Quando
scoppiò il fenomeno dei “complessi” (oggi detti “band”)
anche Nino formò un piccolo gruppo con alcuni amici.
Un giorno, doveva essere nel
’63, Nino chiamò Silvia e le disse: devo farti sentire una
cosa eccezionale, davvero fantastica. Lui, sempre calmo,
sembrava impazzito, eccitatissimo, emozionato. Mise un 45
giri sul suo vecchio grammofono e partì Love me do.
E giù a raccontare di questi
quattro favolosi ragazzi inglesi chiamati Beatles. Silvia,
lì per lì rimase un tantino perplessa: sì c’era qualcosa in
quelle voci, in quella musica, qualcosa di diverso, di
nuovo, ma dovette ascoltare più volte quel brano, e poi
Please please me, e a seguire I love you, e poi Twist and
Shout, perché i Beatles conquistassero infine anche lei. E
anche lei, per i suoi quindici anni, chiese in regalo una
chitarra. Imparò da Nino il “giro di do”, con la punta delle
dita che faceva male, perché ce ne vuole prima che venga un
po’ di callo!
Impararono l’inglese sui testi
dei Beatles e dovettero anche affinare l’udito per afferrare
le parole, perché trovare i testi scritti allora non era
facile. Poi c’erano gli accordi da scoprire, a orecchio,
scambiandosi dei foglietti con su scarabocchiato sol minore,
mi settima, do maggiore…
Esplose, anche in Italia, la
musica pop e loro sempre lì, chitarra e matita, a
trascrivere testi e trovare accordi. Silvia aveva un piccolo
registratore, il mitico Gelosino, e incidevano i loro pezzi.
Silvia ha ancora un nastro (o “pizza”) dove c’è incisa la
voce di Nino, dal timbro caldo, un po’ basso, tipo il Pat
Boone di allora, o il Michael Bublé di oggi. A volte,
prendevano le chitarre, in tre o quattro, o anche solo loro
due, e raggiungevano a piedi le panchine del Gianicolo. Da
casa di Nino erano dieci minuti. Suonavano, cantavano, ma
non solo; si raccontavano sogni e progetti, e i primi
piccoli amori. Ma non tra di loro, non li sfiorò neppure il
pensiero: loro erano amici davvero, quasi fratelli. Un
giorno Silvia raccontò a Nino del suo primo bacio, proprio
su una di quelle panchine. Faceva il ginnasio e lui era uno
del liceo, uno “grande”. A chi altri avrebbe potuto
raccontarlo, se non a Nino? Anche lui cominciò il liceo:
voleva fare il medico. Scherzavano sul fatto che il suo
liceo fosse in alto, a Monteverde, mentre quello di Silvia
era in basso; però, precisava lei puntigliosamente, dai
finestroni della palestra, all’ultimo piano, accanto alla
terrazza dove si facevano le foto di fine anno, si vedeva di
fronte il Gianicolo, al di sopra delle chiome dei platani
del Lungotevere. E quindi, metro più metro meno, erano alla
stessa altezza!
Anni strani, non proprio rose
e fiori; fuori dalla scuola comparvero dei ragazzi che
distribuivano volantini e cercavano di bloccare l’ingresso.
Silvia non riuscivaa capire perché, non entrando a scuola,
avrebbe potuto favorire la fine di una guerra lontana.
Perché il Vietnam era lontano, lontanissimo, e non c’era
Internet e milioni di telecamere onnipresenti che ora fanno
sembrare tutto come se accadesse nel palazzo accanto. Anche
di queste cose parlavano lei e Nino, e intanto cantavano
C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling
Stones, sotto gli sguardi marmorei, immobili e indifferenti,
di Manara, Roselli, Pisacane, Mameli, Pietramellara…
Non so quanto capissero
realmente; in fondo erano “piccoli”, prima si diventava
maggiorenni a 21 anni! e la storia che si studiava si
fermava sempre alla prima guerra mondiale; dopo, chissà
perché, non si faceva in tempo a finire il programma.
L’attualità e la politica poi riguardavano gli adulti, non
c’era stato ancora il ‘68. Però il Risorgimento lo si
studiava benone, mica come adesso…
Per i 18 anni, Silvia
organizzò una festa, da uno zio che aveva la casa grande,
una festa di quelle canoniche, in abito elegante, torta, e
valzer con papà. Fu scelto il valzer della Bella
addormentata di Tchaikovsky. Nino naturalmente c’era,
gentile ed elegante come sempre. Dovette anche consolare un
pochino Silvia perché il ragazzo con cui stava non venne.
Aveva detto che aveva la febbre, ma lei sapeva che non
voleva incontrare i genitori: poteva sembrare qualcosa di
“serio”, di ufficiale. Adesso è buffo pensarci, ma all’epoca
i ragazzi scappavano come leprotti appena sentivano odore di
incastro. Nino non era così. Silvia non la conosceva, ma sapeva che
Nino aveva una ragazza, di cui parlava da qualche tempo. Si
chiamava Laura.
Qualche mese dopo, una sera di
fine settembre, Silvia telefonò a casa di Nino, rispose il
fratello. Nino è morto. Credette ad uno scherzo, ma solo per
un attimo, perché la voce di Marco, incolore e gelida,
faceva accapponare la pelle.
L’auto in cui si trovava,
seduto dietro, era stata investita da un camion che non
aveva rispettato uno stop.
Silvia non trovò pace finché
l’Istituto di Medicina Legale non permise di vederlo. Lo
guardò e di colpo fu tranquilla. Nino non è qui, pensò.
Uscita dall’obitorio,
facendosi largo tra la folla dei parenti, degli amici, e dei
compagni di scuola, vide una ragazza che la guardava, in
disparte, gli occhi asciutti e luminosi. Le si avvicinò: tu
sei Laura, vero? E tu sei Silvia. L’hai visto?... era
carino, vero?...
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