SaggiaMente
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Una citazione - un
verso, un proverbio, una frase celebre -
a conferma del fatto
che da sempre la poesia, la letteratura, la
filosofia, la
saggezza popolare hanno fornito
le basi della
moderna psicologia.
“Honni
soit qui mal y pense”
(Edoardo III d’Inghilterra)
Non
intendo annoiare con disquisizioni teoriche su “proiezione”,
“identificazione proiettiva”, e altri complessi meccanismi
che caratterizzano la psiche umana (per questo ci sono
trattati ed enciclopedie), ma mi servirò come sempre di
esempi pratici e pescati dall’attualità, per
ragionare sulla tendenza ad
attribuire ad altri idee e sentimenti propri.
Meccanismo sano e indispensabile all’empatia, ma che rischia
di produrre interpretazioni distorte della realtà quando
genera presupposti automatici
e deduzioni arbitrarie.
Di
recente sono stata coinvolta, mio malgrado e per l’ennesima
volta, in un “dibattito” politico in un contesto che avrebbe
dovuto essere di stampo disciplinare, cioè attinente alla
mia professione. Quando ho dichiarato che non intendevo
partecipare al confronto, ho dovuto incassare le rimostranze
di chi affermava che il mio pensiero, proprio perché
differente, costituiva una ricchezza di cui stavo privando i
miei interlocutori. Il presupposto
sottinteso era questo: “io credo –
quindi tutti credono – che la ‘disponibilità al confronto’
sia un valore; devi ascoltare tutti e confrontarti, sempre e
con tutti; altrimenti non sei disponibile, sei snob ed
arrogante”. Traspariva la granitica credenza che
tale presupposto sia universale e indiscutibile. Se un
individuo vede il confronto non come un dogma ma come
“strumento” della conoscenza, da utilizzare scegliendo i
momenti, i contesti, e soprattutto le persone con cui
confrontarsi, viene immediatamente accusato di scegliersi
solo interlocutori compiacenti. Escludere che qualcuno possa
essere abbastanza onesto da operare una scelta di qualità e
non di convenienza, svela un altro
presupposto: “io non mi
darei mai la zappa sui piedi, perché dovresti farlo tu?”.
Altro
esempio di attribuzione automatica di proprie convinzioni ad
altri. E’ delle scorse settimane una significativa
situazione venutasi a creare in un famoso talent show in cui
si sfidavano due squadre. Una squadra era caratterizzata da
un scelta di strategie volte a conquistare la vittoria
eliminando i più bravi dell’altra squadra. Si può discutere
se sia più o meno onorevole vincere non sul merito ma
evitando la sfida con gli avversari più pericolosi, ma
quello che più faceva impressione (almeno a me) era
l’evidente incapacità di credere alla buona fede di chi,
nell’altra squadra, giocava in modo diverso, arrivando ad
esprimere la propria ammirazione per la bravura degli
antagonisti. E’ sincero? E’ falso? Sta recitando? Beh,
nessuno ha espresso il minimo dubbio. Bisognava
“smascherare” il gioco ipocritamente buonista
dell’avversario, secondo questo
presupposto: “se
tu nemico dici di apprezzarmi e persino mi applaudi, non
puoi essere sincero; infatti io, che non sono ipocrita, non
lo farei mai. Quindi io sono quello nobile e tu quello falso
che vuole ingraziarsi il pubblico”. Come se fosse
impossibile anche concepire l’esistenza di una diversa
mentalità. Per la cronaca, quando il vero o presunto
buonista si è arrabbiato per questi attacchi, ed è diventato
(quasi) cattivo, i suoi detrattori hanno potuto dire che
avevano ragione a pensare che fingeva. Eppure, ad evitare lo
scontro - peraltro probabilmente auspicato dagli autori
della trasmissione - sarebbe bastato mettere in dubbio il
presupposto.
In un
lontano periodo della mia vita ho fatto teatro. Ad un
concorso nazionale fui premiata con la medaglia d’argento.
L’oro andò ad una ragazza di un gruppo milanese; avevo
vent’anni e lei 26; avevo assistito al suo spettacolo e mi
aveva commosso; io ero brava, ma lei lo era di più, era più
matura, più esperta. Era giusto così e lo dissi con
sincerità. Ma era normale, io non ero una “nobile”
eccezione; infatti nessuno pensò che la mia ammirazione
fosse una captatio benevolentiae e, se pure qualcuno lo
avesse pensato, si sarebbe vergognato della propria
meschinità. Il presupposto,
allora largamente condiviso, era:
“la
lealtà e l’onestà intellettuale sono valori; se vogliamo che
gli altri ci considerino onesti e leali, dobbiamo essere
disposti a fare altrettanto”.
Vorrei
essere smentita su questa mia impressione, ma mi sembra che
oggi, rispetto ad un passato non troppo lontano, ci sia una
crescente tendenza ad interpretare con malignità
atteggiamenti altrui onesti, leali o generosi, bollandoli
come ipocriti e anormali. D’altronde come si possono
attribuire ad altri convincimenti e intenti positivi,
quando, pur inconsapevolmente, se ne ha una personale
carenza o se ne è del tutto privi?
Forse
anche i meccanismi psicologici più naturali risentono della
cultura e del clima sociale dominante?
Forse i
buoni sentimenti sono stati aboliti con la messa al bando
del libro Cuore? Bisognerà imparare ad esprimerli sottovoce
e di nascosto, in qualche segreta carboneria? Sì,
anch’io ho detestato Cuore e Piccole donne e
Capitani coraggiosi, nella mia adolescenza, nel tempo
della ribellione e della “contestazione”. Ma, come per altri
bambini incautamente buttati via con l’acqua sporca,
ora sento per quelle pagine edificanti e un po’ retoriche
una tenerezza e una nostalgia che non sono solo frutto
dell’età.
(Aprile
2010)
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