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        DolorosaMente
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          La sofferenza psicologica è insita nell’uomo e va dalle gravi malattie 
          mentali a quelle situazioni di disagio che tutti, più o meno, 
          abbiamo sperimentato o di cui abbiamo 
           
          
          comunque sentito parlare 
          come stress, ansia, panico, fobie. 
      
      
      
					
					Il lavoro, i numeri e 
					l'astronauta 
					  
					Un 
					ipotetico paese – chiamiamolo Landia – ha un modesto 
					programma di esplorazione spaziale, adeguato agli obiettivi 
					(ad esempio trovare nuove fonti di energia) e compatibile 
					con gli investimenti pubblici disponibili. Possiede quindi 
					una singola astronave. L'astronave necessita di un pilota, 
					un copilota, 10 persone di equipaggio, 10 tecnici, 22 
					persone in tutto. 
					Molti 
					giovani di Landia sognano di fare gli astronauti e tutti 
					ambiscono a fare i piloti. Studiano Astronautica e si 
					preparano a fare infiniti esami e concorsi per superare le 
					selezioni e conquistare l'agognato posto di comando. Uno ce 
					la farà, un altro farà il copilota, 10 saranno l'equipaggio, 
					10 i tecnici. 
					Tutti 
					gli altri hanno un obiettivo di riserva. Lavoreranno alla 
					costruzione di una seconda astronave, che necessita di 
					ingegneri, collaudatori, tecnici, operai, ecc. Ma anche il 
					personale necessario alla costruzione della seconda 
					astronave è in numero limitato.  
					Il 
					governo di Landia ha due strade: continuare a costruire 
					astronavi che non verranno mai utilizzate, oppure dirottare 
					i laureati in Astronautica ad altri lavori, convincendoli a 
					considerare la loro preparazione come un patrimonio 
					culturale che in ogni caso non andrà perduto. Come opzione 
					da applicare al futuro, dovrà istituire il numero chiuso 
					alla facoltà di Astronautica (o, ancora meglio, una 
					selezione meritocratica dopo un primo anno “di prova”), 
					programmando in anticipo il numero necessario di laureati 
					che potranno essere impiegati nel settore.  
					Mi 
					scuso per la metafora forse eccessivamente semplificata, ma 
					a volte è utile anche semplificare per arrivare al nocciolo. 
					
					Mettiamo che in un paese del mondo occidentale occorrano 
					mille piloti, mille ingegneri, mille insegnanti, mille 
					psicologi, mille avvocati, e ci si ritrovi con 10.000 
					piloti, 10.000 insegnanti, 10.000 psicologi, 10.000 
					avvocati, cosa si può fare? 
					Si può 
					ammettere gli errori fatti e spiegare chiaramente ai 
					laureati che sono stati sprecati soldi pubblici per la loro 
					istruzione (nessuno ricorda mai che le tasse universitarie 
					non coprono minimamente i costi) e indirizzarli ad altri 
					lavori, oppure ci si può inventare dei posti pubblici 
					inutili al sistema-paese, continuando a sprecare altre 
					risorse pubbliche. 
					In 
					questo paese (ma credo non solo in questo...), per decenni 
					si sono creati posti pagati con soldi pubblici, inventandosi 
					necessità inesistenti, posti per docenti, primari, 
					forestali, giornalisti, amministratori, “dirigenti”, per non 
					parlare di politici e burocrati assortiti.  
					Era 
					inevitabile, oltre che prevedibile, che ad un certo punto 
					questo sistema facesse tilt.  
					Si 
					continua a dire che un tempo non era così, che era più 
					facile sistemarsi, che un laureato aveva la quasi certezza 
					di trovare un lavoro in tempi brevissimi. Possibile. A 
					studiare erano in pochi e i posti c'erano. Per giunta i 
					giovani si chiedevano che “domanda” c'era nel mercato del 
					lavoro, prima di imbarcarsi negli studi relativi e rischiare 
					di pesare per anni sulle famiglie. Benché, anche allora... 
					Permettetemi una provocazione: ma quanti di quelli che negli 
					anni settanta-ottanta si sono piazzati in comodi e sicuri 
					posti pubblici - e che ora si lamentano per le difficoltà 
					incontrate dai propri figli - possono dire onestamente di 
					non aver usufruito di raccomandazioni, presentazioni, 
					clientelismi e nepotismi? E quanti sono disposti a non 
					usarli ancora per i propri figli, se solo capitasse 
					l'occasione? Qual è il risultato del perpetuarsi di questo 
					malvezzo? I raccomandati si consolano pensando Che male 
					c'è? Lo fanno tutti! I pochi non-raccomandati vengono 
					anch’essi sospettati di esserlo. Di tutti, frustrati i primi 
					e arrabbiati i secondi, l’eventuale valore professionale 
					diventa del tutto irrilevante.   
					Si dice 
					anche che questa sarebbe la prima generazione che starà 
					peggio dei genitori. Può darsi, però è anche la prima volta 
					che molte famiglie possono permettersi di mantenere i figli 
					fino a trent'anni e oltre e, spesso, con un notevole tenore 
					di vita. Per carità, il mondo è fatto a scale, è sempre 
					stato così: ci sono quelli che occupano i gradini più alti e 
					quelli che stanno nel sottoscala (e, a volte, quelli in alto 
					si sentono vittime di ingiustizia più di quelli in basso, ma 
					questa è un’altra storia).  
					Si dice 
					che il problema non è l'eccesso di lauree; ad esempio in 
					Italia le statistiche dicono che il numero dei laureati è 
					più basso che negli altri paesi europei. Concordo. Il 
					problema non è la quantità delle lauree (se vogliamo 
					sorvolare sulla qualità, su cui ci sarebbe da fare un 
					discorso a parte); sebbene bisognerebbe tener conto da dove 
					si parte: i laureati e i diplomati dei corsi universitari 
					nel 1945 erano18.933, nel 1995 erano 112.388 (6 volte di 
					più), nel 2009 erano 294.977. Questione di numeri. 
					Ma a 
					prescindere dai numeri assoluti, il problema è che non ci 
					sono i posti sufficienti per tutti, nelle singole 
					professioni. Dati relativi al 2012, ci dicono che “oltre il 
					46,3% della domanda di lavoro si concentra sulla ricerca di 
					chi ha conseguito un diploma di scuola secondaria, mentre 
					solo il 14,9% dei posti di lavoro disponibili attende i 
					laureati”. 
					Secondo 
					dati recenti forniti dall’eurobarometro “il 40% dei giovani 
					svedesi tra i 15 e i 25 anni è disposto a svolgere lavori 
					manuali per i quali il mercato del lavoro riserva il 42% dei 
					posti disponibili mentre in Italia - dove il 48% della 
					domanda di forza lavoro proviene da settori a vocazione 
					artigianale e operaia - solo il 5% dei giovani è consapevole 
					di poter trovare un posto in questi campi”. Ma questo 5%, 
					ammesso che sia consapevole, sarebbe disponibile? 
					Si dice 
					che è giusto seguire le proprie aspirazioni, cercare di 
					realizzare i propri sogni. E' vero: è giusto. Ma chi ha mai 
					detto che la vita è sempre giusta?  
					La 
					grande illusione dell'Uguaglianza, imprescindibile  Totem 
					dei paesi democratici,  è quella di far credere che tutti 
					possano – anzi debbano – avere tutto. L'uguaglianza delle 
					opportunità ai nastri di partenza, quella sì, è o dovrebbe 
					essere un diritto, un diritto per cui vale davvero la pena 
					di lottare, e anche di morire, come accade da sempre nella 
					storia dell'uomo. Ma non è mai stato un diritto – né mai lo 
					sarà -  la garanzia di tagliare il traguardo per primi ed 
					ottenere la medaglia d'oro. L'oro va guadagnato.  
					
					Riconosciamolo, ci sono lavori che attirano più di altri: 
					sono, o sembrano, più facili, più appaganti, più divertenti. 
					Forse, per conquistarli, bisognerebbe essere pronti a 
					correre dei rischi e a considerare anche la possibilità, 
					nonostante l'impegno, di sconfitte e fallimenti. Magari 
					avere un piano B. 
					La 
					Cultura, l'Arte, la Ricerca: ecco i grandi temi oggetto di 
					lamentele e rivendicazioni e, soprattutto, ossessive 
					richieste di fondi. Fondi pubblici, naturalmente. Fondi 
					senza fondo, visto il numero degli aspiranti sedicenti 
					artisti, scienziati, geni della politica, della didattica, 
					dell'economia.  
					
					L'uguaglianza delle opportunità, siamo sinceri, da noi già 
					esiste, insomma quasi, ed è sacrosanta e preziosa, pur 
					imperfetta. Difendiamola. Miglioriamola. Non diamola per 
					scontata. Tutti hanno il diritto di studiare Astronautica. 
					Ma... resta il fatto che, alla fine, sull'astronave servono 
					22 persone, non una di più. E questo vale in molti altri 
					campi. Questione di numeri. 
					Certo, 
					nel privato è diverso: voglio fare il manager, il 
					giornalista, il regista? Voglio puntare tutto su quelle che 
					penso siano le mie capacità? Benissimo, sono libero di 
					farlo, basta rischiare in proprio oppure trovare chi è 
					disposto a credere in me e a fornirmi i finanziamenti. Come? 
					Non è così facile? Infatti. Perché bisognerebbe dimostrare 
					di essere davvero molto bravi per ottenere che qualcuno 
					rischi i propri soldi, giusto? Ma se le cose stanno così, 
					perché dovrebbe essere lo stato a sovvenzionare – con i 
					soldi di tutti – le ambizioni di aspiranti manager, 
					giornalisti, registi, o... astronauti, probabilmente 
					mediocri e provvisti di una presunzione pari solo 
					all'incompetenza? Sottraendo risorse che invece potrebbero 
					essere destinate ai pochi veri talenti. 
					Non 
					tutti possono fare tutto. Non tutti possono avere tutto.
					 
					Ci si 
					può provare, ma non basta desiderare qualcosa per 
					pretenderla come fosse un diritto. E “indignarsi”, o uscirne 
					distrutti, se non la si ottiene. Tutti hanno il diritto di 
					cercare la propria realizzazione, ma per trovarla non tutti 
					possono diventare astronauti, o la Merkel, o Roberto Bolle.
					 
					E' 
					questione di numeri. Non è una faccenda politica, non basta 
					cambiare i governi, fare riforme; non si tratta di “creare 
					posti di lavoro” on demand, ma di creare lavoratori per i 
					posti disponibili. 
					
					Bisognerebbe rifiutare, individualmente, di adeguarsi alle 
					vecchie logiche: abolire più che il valore legale dei titoli 
					di studio, il presunto valore di status symbol, 
					smetterla cioè di collegare la qualità e la dignità di una 
					“persona” al pezzo di carta o alla scrivania che possiede e, 
					parallelamente, guardare alla cultura come ad una ricchezza 
					in sé, non necessariamente legata all’attività da cui trarre 
					la propria sussistenza. 
					  
					  
					
					Qualcuno potrà 
					chiedersi che cosa c’entra tutto questo con la psicologia. 
					
					C’entra… 
					c’entra… 
					
					Nell'attuale 
					crisi della nostra società sono individuabili meccanismi di 
					difesa come proiezione, rimozione, negazione, 
					scotomizzazione; e poi deliri di onnipotenza e complessi di 
					inferiorità; atteggiamenti narcisistici e “NIMBY” (Not In My 
					Back Yard); conseguenze dolorose come demotivazione, 
					frustrazione, depressione… per non parlare di funesti 
					 “effetti collaterali” come la tendenza di alcuni alla fuga 
					nello sballo... Devo continuare? 
					
					  
						
						
						Dati statistici tratti da: 
						
						
						
						http://repubblicadeglistagisti.it/article/riforma-licenziamenti-formazione-mobilita 
						
						
						
						http://www.edscuola.it/archivio/statistiche/iruniv.html 
					  
					
					Agosto 2012 
        
      
                  
                  
                
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