TeoricaMente 14
Questa pagina tratta di argomenti di
base della psicologia,
i suoi meccanismi, le sue leggi. Quei
meccanismi e quelle leggi
che tutti utilizziamo, ma… senza saperlo.
La sindrome del sanbernardo
Sull’altruismo
(e sul suo contrario l’egoismo) sono stati scritti miliardi
di parole. Sugli aspetti sociologici, filosofici,
psicologici, religiosi, antropologici.
Cosa potrei aggiungere di nuovo?
Nulla. Il mio è solo un invito a domandarsi cosa è - per
noi - l’altruismo.
Perché noi siamo – quando lo siamo - altruisti,
generosi, disponibili? Qual è il nostro limite alle
richieste d’aiuto, qual è la nostra soglia di tolleranza
alle sofferenze di altre persone, qual è il grado di
capacità di negarsi rispetto alle altrui pretese?
La risposta più ovvia di una
persona generosa sul perché sia generosa è:
perché mi fa piacere fare del bene a
qualcuno, come dire: lo
faccio per il mio bene.
Però questa frase ne ricorda molto da vicino una simile e
contraria, non sempre gradita, che quasi tutti abbiamo
sentito pronunciare: lo faccio per
il tuo bene.
La prima è legata ad un sentimento di
gratificazione che deriva
dal sentirsi nobili e buoni, dal sorriso riconoscente della
persona aiutata, dall’assoluta assenza di sensi di colpa che
sarebbero invece insorti con prepotenza se ci si fosse
rifiutati di prestare aiuto.
La seconda è legata per lo più al
senso del dovere: faccio una cosa che non ti
piacerà, ma la faccio lo stesso per il tuo bene. Perché
naturalmente io so qual è il tuo bene, ed è mio
dovere aiutarti.
Il punto è:
qual è il tuo bene?
Stabilire qual è la cosa migliore da fare per un’altra
persona non è così semplice come appare.
Ci sono situazioni banali e generalmente episodiche che non
dovrebbero creare dubbi: ad esempio se una persona cade
malamente per strada sotto ai nostri occhi, è “cosa buona e
giusta” aiutarla a rimettersi in piedi ed assicurarsi che
stia bene. Ma se a cadere ripetutamente è un atleta che si
sta allenando, probabilmente aiutarlo a rialzarsi non è la
cosa migliore che il suo coach possa fare. Come dice anche
un vecchio proverbio, “sbagliando s’impara”.
Un altro esempio è quello dell’amico che ha bisogno di una
mano in un particolare momento di difficoltà. E’ giusto e
naturale aiutarlo. Ma se l’amico si lamenta da una vita
sempre degli stessi problemi, senza mai decidersi ad
affrontarne le cause, che succede? Se ha vicino una o più
persone disponibili a ricevere i suoi sfoghi, a dispensargli
conforto e complicità, immancabilmente, dopo ogni sfogo, si
sentirà così sollevato da rimandare ad libitum un serio
autoesame sui veri motivi del suo malessere.
Purtroppo quella che io chiamo
la sindrome del sanbernardo,
e altri chiamano la sindrome della
crocerossina con la variante della sindrome
di wonderwoman, è molto
diffusa. E non potrebbe essere altrimenti in un paese di
cultura cattolica in cui la pietà, la carità, la solidarietà
sono valori imperativi. Non è neppure casuale che alcune
denominazioni italiane siano al femminile, visto il
diffusissimo mammismo protezionista-ad-oltranza, nel
senso che va ben oltre la giusta protezione che si
deve ai piccoli.
Non che la solidarietà non sia di per sé un valore, ma quasi
mai ci si chiede se è veramente
utile alla persona che ne beneficia. O piuttosto
è più utile a chi la pratica per sentirsi più forte, più
bravo, più buono; in altri termini superiore.
Se poi una persona che fa del lamento quasi una professione
si incontra con una persona con la sindrome del sanbernardo,
il binomio è lungamente indissolubile perché i vantaggi sono
reciproci. Ma, come spesso accade di scoprire in psicologia,
il vantaggio è solo apparente e temporaneo e, presto o
tardi, i nodi vengono al pettine. Il nodo del
rifiuto all’autocritica e
quello dell’esigenza di sentirsi
indispensabile.
Gira molto nel web una storiella edificante su una farfalla
che viene aiutata ad uscire dal bozzolo da un uomo
impietosito dai suoi sforzi. Questa farfalla, narra l’autore
del racconto Eric de la Parra Paz, non poté mai volare
perché lo sforzo che le era stato risparmiato sarebbe stato
necessario ad irrobustirla tanto da consentirle di
dispiegare le ali accartocciate.
Parallelamente, è altrettanto diffusa la propensione a
tirarsi fuori da situazioni in cui si ha, o si è avuta in
precedenza, una parte importante. Senza averne
consapevolezza.
Tempo fa, un amico osservava come, nel suo acquario
casalingo, un gruppo di pesci decidesse di isolare un
individuo sgradito confinandolo in un angoletto della
vasca e, impedendogli di nutrirsi, lo condannasse di fatto a
morire. Certo, in natura la legge
del più forte è evidente in mille manifestazioni,
e l’essere umano - che pure ne è artefice o vittima – non
può che arrendersi impotente ad una realtà che sembra
ineluttabile.
Ma è
sempre così?
Ciò che è sfuggito al mio
amico è che l’emarginazione di un pesce da parte del gruppo
avviene solo quando l’ambiente è troppo ristretto; in mare
aperto non succederebbe perché il pesce scacciato andrebbe a
cercarsi un altro territorio. In effetti l'amico ha parlato
di un fenomeno credendosi un osservatore neutrale,
come se un osservatore non facesse
parte anch'egli del quadro osservato; cioè non si è
accorto che lui ha contribuito a determinare quella
situazione appunto mettendo i pesci in un ambiente
artificiale e ristretto.
Forse varrebbe la pena di
chiederci più spesso, senza fermarsi alla superficie, perché
preferiamo precipitarci al soccorso con la nostra botticella
di grappa, piuttosto che domandarci fino a che punto noi
personalmente abbiamo influito sulla realtà che ci circonda,
e come potremmo cambiare le cose, cambiando noi stessi.
(Gennaio
2009)
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