Libertà e Rispetto
Ho deciso di dedicare una pagina ai due temi che
da sempre mi stanno più a cuore:
la Libertà e il Rispetto, convinta che non
possano che coesistere,
in delicato equilibrio tra loro.
Perciò ho riunito in questa pagina tutti gli
articoli che, nel corso di oltre 10 anni, ho dedicato a questi argomenti,
cercando in ogni riga, in ogni parola, di esercitare
sia la Libertà
delle mie idee, che il Rispetto per quelle degli altri.
Spero di esserci riuscita, ma… si può sempre
migliorare.
Il Telegiornale
Il telegiornale che
preferisco, quello più equilibrato, quello più neutrale… è il
mio!
No,
purtroppo non possiedo televisioni, non sono un direttore di giornale,
non sono neppure una giornalista. Ma io il
mio telegiornale riesco a
farmelo lo stesso. E ognuno di voi può fare altrettanto. Come? Come in
un gioco, un puzzle, un
collage, una partita a scacchi…
Prendiamo
una notizia qualsiasi. Il politico
Pippo fa un comizio, tocca gli argomenti
A B C
D.
Viene applaudito per gli argomenti A
e B e viene fischiato per
gli argomenti C
e
D.
La sera il
TG-101 riferisce che il comizio è
stato un successo, che c’erano 300 mila persone, che il clima era di
festa, e mostra le immagini in cui la gente sventola le bandiere e
applaude per gli argomenti A e
B.
Passiamo
ora al TG-102: dice che il comizio è
stato un fiasco, che i partecipanti erano sì e no 50 mila, che il
clima era tutt’altro che pacifico. Le immagini mostrano la gente che
urla slogan violenti, che fa gesti non proprio di gioioso entusiasmo,
e che fischia gli interventi sugli argomenti
C e
D.
Se si
resiste a guardare i TG 103,
104, 105,
106, ecc., si potrà fare un
collage di tutte le
informazioni, si potrà cercare
di scartare gli eccessi in un senso e nell’altro, nonché di escludere
mentalmente le opinioni dei
vari giornalisti, inviati, corrispondenti, ospiti in studio, e forse…
dico forse… si potrà avere un’idea di quello che realmente è successo.
Naturalmente ci vogliono alcuni
pre-requisiti essenziali: non essere parenti di
Pippo, non essere militanti di
questa o quella corrente politica che sostiene i singoli TG, non
dovere riconoscenza a chicchessia per aver ottenuto un posto di
lavoro, una casa, una pensione di (incerta) invalidità, o qualsiasi
altro privilegio, da nessuna delle forze in gioco, essere onesti con
sé stessi, ed avere del tempo a disposizione.
Dati tutti
questi requisiti, ci si può allenare – non è facile - a scoprire un
po’ di verità, condita da
obiettività q.b., nella marea
di notizie che ci sommergono ogni giorno. Niente paura, non sto
suggerendo di passare la vita a guardare tutti i TG, - spero
che abbiate di meglio da fare - basta farlo una volta ogni tanto,
quando un avvenimento ci interessa particolarmente, e ci interessa
veramente capirne tutti gli aspetti.
Lo stesso
discorso, va da sé, vale per la carta stampata (perché non comprare 3
o 4 giornali diversi, ad esempio una volta al mese?), o per i libri,
siano essi testi scolastici, o divulgativi, o saggi, o premiati
best-seller di moda.
Un altro
elemento utile è approfondire le fonti:
chi ha fornito i dati,
l’attendibilità dei dati stessi, la loro reperibilità,
chi parla (o scrive), la sua
storia, la sua preparazione, e perché no? la sua reputazione (o è una
parola passata di moda?). E’ ad esempio importante che i commenti
vengano esplicitamente accompagnati da informazioni controllabili
sulle fonti, o viceversa dalla frase “è mia opinione che …”. E’ ovvio
che se la dimostrazione di
una qualsiasi tesi, si basa su un
presupposto approssimativo, o errato, o addirittura falso,
tutto il discorso viene a cadere, per quanto logico e razionale sembri
il ragionamento.
Quando si
diventa esperti in questo gioco,
non sarà difficile scoprire quante volte si afferma qualcosa, per poi
inventare il presupposto da cui l’affermazione dovrebbe invece
scaturire. Io non posso dire: “Pluto ha detto che la luna è quadrata,
quindi Pluto è un bugiardo”. Devo prima dimostrare che Pluto abbia
detto che la luna è quadrata. Eppure, se si impara a farci caso, ci si
accorgerà di quante persone affermano, convinte, qualcosa, senza
sentirsi in dovere di dimostrare nulla, credendo – o volendo far
credere - che una cosa sia vera solo per averla
affermata.Infine non guasta ogni tanto chiedersi:
“cui prodest?” Il vecchio detto
latino ci invita a domandarci chi
trae vantaggio da un’affermazione o da un’azione. Essendo io piuttosto
scettica sulle tendenze altruistiche dell’essere umano, e non
scandalizzandomi del fatto che ognuno cerchi di trarre qualcosa di
buono per sé, preferisco chiedermi:
quale è il vantaggio che questa persona si aspetta? E’ un
vantaggio lecito, accettabile, che può portare vantaggi anche ad
altri? O è un fine meschino, esclusivamente egoistico, abietto o
dannoso per altri?
Insomma,
dando per scontato che l’obiettività non
esiste, e che il giudizio di ciascuno è sempre – più o
meno – influenzato da mille e uno fattori, l’unica cosa da fare è…
ricordarsene e tenerlo sempre
presente: forse è solo questa la chiave per un maggiore reciproco
rispetto.
(Ottobre 2002)
“Pubblico”?
Il
9 settembre 1998 ci lasciava Lucio
Battisti.
In agosto ero stata
all’estero. Prima di partire, radio e televisione propinavano tre
bollettini medici al giorno sulle condizioni di salute di Alberto
Castagna. I quotidiani riportavano coscienziosamente tali bollettini,
nonché opinioni, commenti, resoconti di medici, parenti, amici,
colleghi di lavoro. Tornata dal mio viaggio, passarono settimane prima
di sentire di nuovo parlare di Castagna.
Naturalmente questo
è solo un esempio: ciò accade per i più svariati argomenti, e a volte,
da un giorno all’altro. Mi chiedo perché, dopo un’overdose di notizie
su un certo tema, come per un misterioso contrordine, non si sa più
come le cose stiano procedendo o come si siano concluse. Mi piacerebbe
essere smentita, ma ho l’impressione che per alcuni giornalisti –
sempre pronti a sbandierare il loro diritto-dovere all’informazione –
in realtà l’informazione sia
l’ultimo degli scopi.
Prendiamo il “caso”
Battisti. Forse secondo certi giornalisti avrebbe dovuto prendere il
posto del “caso” Castagna. Una succulenta valanga di articoli,
interviste, comunicati dell’ultim’ora… Sempre per questi giornalisti
(ma il discorso è ugualmente valido per alcuni fotografi), frustrati e
delusi per il mancato scoop, un personaggio pubblico ha il
dovere di tenere informati i suoi
estimatori i quali hanno il diritto
di sapere.
Allora io mi pongo
alcune domande: cosa vuol dire personaggio
“pubblico”? Pensiamo ad
un uomo politico: un politico, per sua natura,
rappresenta altre persone, in nome e
per conto delle quali prende delle decisioni, agisce, lavora: ha
appunto un ruolo pubblico. Le
persone rappresentate hanno il diritto di sapere se possono contare su
questo signore, ovviamente finché questo signore ricopre il suo ruolo
pubblico. Se questa persona ha problemi tali per cui non può più tener
fede al proprio mandato, in via temporanea o definitiva, è giusto che
gli altri ne vengano informati per poter provvedere. (Naturalmente,
persino in questo caso, non è assolutamente
necessario sapere tutti i particolari).
Veniamo ora al caso
di un artista, sia esso un cantante, un attore, un musicista,
un pittore. Per quale motivo questo artista è un personaggio
"pubblico” ? “Pubblico” significa
“ciò che non è privato, che appartiene a
tutti”. Un personaggio dunque diventa pubblico perché il suo
lavoro si svolge davanti a degli spettatori? Ammettendo che sia così:
il personaggio, cioè il cantante o
l’attore, può anche essere considerato pubblico nello
svolgimento del suo lavoro, ma per quale motivo un cantante o un
attore deve essere personaggio 24 ore al giorno, e per tutta la
vita? Quand’è che ha il diritto, questo sì sacrosanto, di ridiventare
“persona”? Perché questa
persona non ha il diritto di fare una passeggiata, di andare al
cinema, di sposarsi o divorziare, di ingrassare o di piangere, o di
avere l'ernia del disco, senza essere costantemente spiata, assediata,
braccata, con il pretesto del diritto di
cronaca? E se è vero che il diritto alla
privacy è stabilito per legge, non
è anche vero che la legge è uguale per tutti? Un artista non
rappresenta nessuno, rappresenta solo sé stesso, e, in quanto persona,
non appartiene alla collettività. La sua produzione artistica, quella
sì, è per gli altri, per chi vuole usufruirne e goderne, persino la
sua persona – in senso fisico – è per gli altri, nel momento in
cui è la sua persona il veicolo e lo strumento della sua produzione
artistica, ma tutto deve finire lì.
Nessun
essere umano,
insomma, per quanto grande possa essere la sua popolarità, dovrebbe
essere definito “pubblico”, nel senso di “appartenente alla
collettività”. E’ evidente che il problema nasce quando si confonde il
“ruolo” con la
“persona” portatrice di quel ruolo.
Un’argomentazione
spesso addotta dai paladini del diritto di cronaca ad oltranza è che,
non fornendo notizie certe, si dà adito ad un aumento della curiosità
morbosa e alla diffusione di notizie inventate (la Pivetti giustificò
in questo modo il suo furore presenzialistico in occasione delle sue
nozze). Mi viene in mente un episodio della mia giovinezza avvenuto
durante un Carnevale: aggredita, insieme ad un’amica, da un gruppo di
ragazzini scalmanati armati di famigerati – e dolorosi – manganelli di
plastica, mi sentii fare questa proposta: se avessimo consentito loro
di darci qualche botta leggera, poi ci avrebbero lasciate in
pace ed avremmo evitato le botte pesanti. Addossata ad un muro,
cercai inutilmente di far capire a quei mini-energumeni che la strada
in cui ci trovavamo non era tra quelle preposte ai
pubblici festeggiamenti
carnascialeschi, e che il mio diritto
di essere lasciata in pace non poteva essere contrattato. Il
cervellino acerbo dei manganellatori stava ancora cercando di captare
il mio ragionamento quando arrivarono dei poliziotti.
Ho adorato
Battisti, ascolto ancora le sue canzoni. Gli sono grata per i momenti
bellissimi che mi ha regalato, mi sono dispiaciuta profondamente per
la sua malattia e per la sua scomparsa, ma il fatto che la sua
musica, la sua voce, siano
entrati nella mia vita, non mi autorizza ad entrare nella sua
vita, nella sua vita di persona,
alla quale si deve lo stesso rispetto dovuto a chiunque altro. E’
legittimo desiderare di saperne di più, non è legittimo pretenderlo.
Allora, cari
signori giornalisti: è vero, il vostro lavoro è
informare; informare significa
riferire dei fatti, e i fatti da riferire, durante la malattia di
Battisti erano: Battisti sta male, ma ha chiesto di essere lasciato in
pace; la sua famiglia desidera rispettare la sua volontà, amici e
conoscenti esprimono la loro preoccupazione ed il loro dispiacere; i
medici seguono giustamente il loro codice deontologico. Punto.
Questa è
informazione seria e onesta. La curiosità morbosa, da qualunque parte
provenga, e per quanti soldi possa fruttare, va ignorata.
"Il pubblico ha un'insaziabile curiosità di conoscere ogni cosa ,
tranne ciò che vale la pena di conoscere. Il giornalismo, consapevole
di tale fenomeno e puttanesco di
natura, provvede a soddisfare le sue esigenze. Alcuni secoli fa
il popolo inchiodava i cronisti di allora alla gogna, e questo era
senza dubbio inelegante; ma al giorno d'oggi i giornalisti inchiodano
se stessi deliberatamente al buco della serratura, il che è anche
peggio" (Oscar Wilde)
(Settembre 2002)
Piove governo ladro
Ricordo una
volta, molti anni fa, un’anziana signora piuttosto infervorata, che
cercò di coinvolgermi, in attesa entrambe davanti al banco di una
farmacia, in un’esplosione di giubilo ed entusiasmo, per una vittoria
della nazionale di calcio, e si offese - giuro: era proprio “offesa”!
- quando dedusse, dalla mia reazione piuttosto tiepida, che il calcio
non mi interessava affatto.
Ultimamente
questa tendenza
ad attribuire arbitrariamente ad altri il proprio
pensiero si è diffusa in modo preoccupante, e su argomenti ben più
importanti.
Assistevo
la scorsa primavera ad un seminario di psichiatria. Il relatore,
brillante e colto docente universitario venuto appositamente da
un’altra città, all’improvviso, tra un postulato freudiano e una
citazione junghiana, si è lanciato in una menata sarcastica e
tagliente nei confronti dell’attuale capo del governo. Il tono leggero
e divertito non attenuava il senso di quanto andava dicendo. Il
pubblico era costituito da persone di varia provenienza, che non si
conoscevano tra loro e che probabilmente mai in futuro avrebbero
approfondito la reciproca conoscenza. Se per vari motivi si è
interessati ad un seminario o ad una conferenza, va da sé che non si è
nella disposizione mentale di alzarsi per esprimere la propria
opinione in un campo totalmente estraneo al tema trattato, o di
protestare andandosene platealmente.
Con le
stesse modalità, durante lavori di gruppo in ambito professionale, più
volte mi è capitato di assistere alle esternazioni di qualcuno che
approfittava dell’occasione per pronunciarsi pesantemente su temi non
pertinenti.
Tramite
e-mail, mi pervengono regolarmente messaggi molto espliciti, appelli
spesso allarmistici, e addirittura raccolte di firme, che non possono
che essere definiti propagandistici,
da parte di persone appartenenti ad associazioni, comitati,
istituzioni di vario genere - che si dichiarano peraltro di tipo
“culturale”, “indipendente”, “apolitico” - e con cui sono venuta in
contatto esclusivamente per motivi di lavoro.
Ancora
peggio quando ciò si verifica in gruppi di amici o conoscenti casuali,
in occasione di cene o conversazioni salottiere. In queste
circostanze, la buona creanza - per chi ancora la frequenta -
imporrebbe di sorvolare e fare buon viso a cattivo gioco. Quando
proprio non ci si riesce perché l’aggressione è veramente eccessiva,
si può star certi che difendere il
proprio o altrui
diritto ad avere delle opinioni diverse, non sarà privo di
conseguenze.
Il bisogno
di condivisione e
appartenenza è assolutamente
naturale nell’essere umano, e sono ugualmente legittimi l’esigenza e
il diritto di esprimere le proprie credenze ed opinioni. Altrettanto
naturale e legittimo, e infatti esiste il detto popolare, è
prendersela con i governanti di turno e proclamare ad ogni piè
sospinto “Piove, governo ladro!” anche mentre la siccità tocca punte da record storico.
Però quello
che succede negli ultimi anni, senza che nessuno ne sottolinei la
gravità, è che non solo si cestina, certo perché troppo impegnativa,
la celebre affermazione di Voltaire riguardo ai suoi avversari
«Non sono d’accordo con quel che dicono, ma
mi batterò fino alla morte perché possano dirlo»
(esagerato!). Ma, in nome di una presunta
superiorità intellettuale,
culturale, morale, si passa, da parte di alcuni, al convincimento che
esista una sola unica incontestabile giusta Verità e quindi tutto
il resto è anomalia,
perversione, e deviazione dalla norma (alla quale è necessario
tornare rapidamente con tutti i mezzi possibili), al punto tale
che ci si rifiuta di ammettere che “il
resto” esista e che
abbia pari diritto di espressione.
Questa pericolosa
“tendenza” può essere
ricondotta alla sottintesa seguente convinzione:
per essere una brava persona, rispettabile
e moralmente degna, devi essere come me, condividere le mie idee e le
mie passioni, sanzionare insieme a me tutto quello che non rientra nel
mio modo di pensare. E poiché il mio modo di pensare è l’unico
possibile, l’unico Buono e Giusto, non posso che dare per scontato che
tu la pensi come me. Per questo non mi chiedo e non ti chiedo neppure
come la pensi, è ovvio che non puoi che pensarla come me!
Come?!? non la pensi come me?!? Vergogna vergogna vergogna!
Come l’episodio
della tifosa dimostra, non è uno specifico argomento che fa
scattare questo meccanismo, ma certamente l’argomento “politica” è
quello che più facilmente accade di veder tracimare dai confini che
dovrebbero delimitare una tranquilla chiacchierata tra amici, o una
conferenza accademica, o una riunione di lavoro o di studio.
Tutto ciò accade in
un paese dove il voto è “segreto” e dove parlare di politica è quasi
un tabù (o forse accade proprio per questo...?)
E allora può
capitare di vedere la propaganda
infiltrarsi come un blob nei
luoghi e nei momenti meno opportuni, di ascoltare stoccate velenose
lanciate come per caso, quando ci si trova nell’impossibilità di
replicare, di dover subire la prepotenza di chi approfitta senza
imbarazzo di qualsiasi occasione pubblica o privata destinata ad
“altro”, che non prevede cioè una dichiarata finalità di discutere
alla pari e confrontarsi apertamente.
E’ naturale che
ognuno pensi di avere ragione e non voglio dire che non esistano in
assoluto valori e obiettivi condivisi e condivisibili, come ad esempio
assicurare a tutti gli esseri viventi la sopravvivenza, la salute, la
giustizia, il benessere. Il problema sta nel
come. E se esistesse un unico
modo infallibile lo si sarebbe già trovato.
Allora va bene
discutere su questo “come”,
va bene azzuffarsi per dimostrare agli altri che le loro ragioni sono
totalmente sbagliate, va bene anche divulgare e promuovere le proprie
idee e convinzioni, ma attenzione: non va bene decidere che qualcuno è
moralmente migliore o peggiore
di qualcun altro in virtù o per colpa delle idee e convinzioni che ha.
Tutti abbiamo il
diritto di esprimerci, ma a nessuno è stato dato il diritto di
giudicare, prevaricando o escludendo illegittimamente a priori la
ragione altrui, l’altrui pensiero.
(Ottobre 2003)
"Per discutere
davvero si deve prima aver accettato
la possibilità di
avere torto"
(Sartre, 1948)
Spesso mi domando perché non si riesca a parlare di politica, nemmeno
tra amici, tra persone cioè che presumibilmente si apprezzano e si
stimano. Discutere e confrontare le proprie idee è qualcosa che esige
il rispetto reciproco, altrimenti è inevitabile, laddove le idee non
coincidano, lo scontro, anche feroce e talvolta devastante. In ogni
caso, inutile.
Ogni volta che assisto, o partecipo, ad una discussione politica –
ammesso che discussione sia la
parola giusta per pochi, allusivi e sarcastici scambi di battute –
resto sorpresa dagli atteggiamenti del tutto inusitati che assumono
persone le quali su qualsiasi altro argomento generalmente mantengono
serenità, coerenza, e soprattutto lucidità. Cos’è che improvvisamente
rende queste persone indistinguibili dagli scalmanati ultra-tifosi di
calcio, categoria umana tra le più ottuse e irrazionali?
Pensiamo ad un qualunque Sig. Rossi, ragionevole, intelligente e
pratico; mettiamo che gli serva un dentista, o un arredatore, o un
idraulico, o un avvocato. Si informa
da conoscenti e amici, cerca di capire se si tratta di una persona
seria, se è preparata, onesta, se è degna di fiducia. A questo punto
si affida a questa persona,
rimanendo comunque vigile sul suo operato e sul suo comportamento. Se
comportamento ed operato non sono soddisfacenti, il Sig. Rossi
si cerca un altro dentista, un
altro idraulico, un altro avvocato.
Lo stesso Sig. Rossi ha cominciato a votare, per tradizione familiare,
o contestando la tradizione familiare, per il partito PX, che
rispecchia i valori in cui crede, che presenta un programma
condivisibile, che comprende nelle sue liste persone che presume serie
e affidabili. E qui comincia il comportamento inusuale. Legge solo
giornali col marchio PX, ascolta solo i discorsi, i comizi e gli
interventi radiotelevisivi degli esponenti del PX. Contemporaneamente,
evita come la peste qualsiasi voce discordante, accogliendo con
disprezzo e strafottenza osservazioni o commenti non allineati
persino se provenienti da amici di cui in genere ha stima e rispetto,
invece di servirsi delle voci diverse proprio per operare
quella critica e quella
vigilanza che si riserva a
chiunque stia facendo qualcosa in nome e per conto nostro.
Ho provato ad immaginare quale potrebbe essere il
presupposto, o quali i presupposti,
di questo comportamento. Innanzitutto si dà per scontato che tutti i
buoni stanno da una parte, e tutti i cattivi dall’altra.
Secondo, è ovvio che i “miei” sono i buoni; quindi, per la serie “o
con me o contro di me”, è chiaro che chiunque stia dall’altra parte
non può avere assolutamente nulla di positivo. Terzo, i “buoni”, per
il semplice fatto che io li ho scelti ed appoggiati, sono sempre e
comunque buoni, qualsiasi cosa facciano, e – soprattutto – è
assolutamente escluso che stiano cercando di fregarmi. Addetti alla
fregatura ci sono già i “cattivi”. Quarto, le promesse ed i programmi
sono rispettivamente falsi, inattuabili, demagogici, oppure seri,
onesti, realistici, a seconda che sia la parte avversaria, o la mia –
quella dei buoni - a recitarli durante le campagne elettorali.
Allora, io chiedo al Sig. Rossi: perché non ti interessa conoscere le
motivazioni degli altri? Perché pensi che le tue siano le uniche
motivazioni giuste e valide, e non suscettibili di eventuali
aggiustamenti o ripensamenti? Non stai forse investendo in una parte
politica più di quanto ad essa si possa ragionevolmente chiedere?
Che cos’è la "politica"?
Secondo lo Zingarelli 2000 è la “scienza e
arte di governare lo Stato”. Né più né meno. Quindi, siccome
non possiamo tutti governare lo Stato, si eleggono delle persone che
ci rappresentino, che rappresentino i nostri interessi, o magari, gli
interessi che ci stanno a cuore, se pure non sono i nostri.
Certo se la fedeltà
ad un partito funziona sul modello de “la Roma è 'na fede”,
tutto si spiega... Ma il calcio, ammesso che qualcuno se lo ricordi
ancora, è un gioco. Oppure
no?
(Gennaio 2004)
Vuoi più
bene a mamma o a papà?
Un
pericoloso equivoco per cui alcuni pensano - pur non osando
confessarlo - che la pedofilia, se non c’è costrizione, non è poi così
grave, si basa sulla convinzione che il bambino spesso è “d’accordo”.
Il problema è che si può insegnare ai bambini ad essere
d’accordo. Non è necessario costringerli. E la pedofilia non è l’unico
tragico sbocco di tale possibilità.
Ad un
bambino si può insegnare cosa è giusto e cosa non lo è, cosa è buono e
cosa non lo è, gli si può insegnare ad uccidere, a pregare, a
prostituirsi, a rubare, a sacrificarsi, ad amare e a odiare.
Il
bambino non può scegliere.
Da quando un piccolo nasce, è biologicamente predisposto a fidarsi di
coloro che lo accudiscono: se non lo facesse, morirebbe. Morirebbe di
paura all’avvicinarsi di un adulto, o di fame perché rifiuterebbe di
mangiare.
I bambini
di certi paesi vengono trasformati in soldati spietati; milioni di
bambine subiscono senza ribellarsi mutilazioni terribili perché sono
le loro mamme e le loro nonne a volerlo; altri vengono indottrinati ed
indotti con tecniche più o meno raffinate ad accettare una religione o
un’ideologia, ad adottare convinzioni e comportamenti violenti,
razzisti, sessisti. A considerare
giusto e “normale”
quanto di più efferato è capace di produrre una mente
umana.
Ma come è
possibile trasformare una creatura innocente in un piccolo mostro o in
una vittima consenziente? E’ facilissimo, basta non darle scelta.
Basta proporle un’unica strada, un’unica indiscutibile Verità.
Certo,
esiste per fortuna il lato positivo della medaglia: è per questa
innata disponibilità ad apprendere, che è possibile insegnare ai
bambini la Bellezza, la Generosità, la Libertà, il Coraggio. E
la capacità di scegliere. Ed ecco
l’immensa responsabilità degli adulti: di tutti gli adulti nei
confronti di tutti i bambini, non solo dei genitori nei
confronti dei propri figli.
Si parla
tanto di tolleranza, di giustizia, di democrazia, di rispetto, di
pace... Splendide parole. Ma dovremmo tutti ricordarci più spesso che
le parole hanno un’influenza minima sui piccoli, rispetto all’enorme
valore che ha l’esempio.
E non può
esistere tolleranza, giustizia, rispetto, se non si è capaci di
proporre ai bambini, insieme alle nostre verità, anche quelle
degli altri; se non proprio con entusiasmo, almeno con altrettanta
onestà e limpidezza.
Questo è un
vero assoluto diritto dei bambini: avere un quadro della realtà il più
possibile completo, affinché sia loro possibile scegliere.
So bene di
dire qualcosa di molto impopolare, ma sono convinta che l’ora di
religione dovrebbe spiegare i princìpi di tutte le religioni, e anche
dell’ateismo; che la politica andrebbe insegnata cominciando dalla sua
storia: dove, quando e come ideologie, partiti e movimenti sono nati,
dove quando e come si sono sviluppati, quali gli aspetti positivi e
quali i risvolti negativi nella loro applicazione pratica.
Bisognerebbe insegnare, a casa e a scuola fin dalle prime classi, a
sviluppare il senso critico,
e prima di questo, la capacità di reperire informazioni, attingendo da
più fonti. A controllare personalmente le fonti, che siano esse
istituzioni, o giornali, o leggi; l’attendibilità, la formazione e la
storia di vita se si tratta di persone.
Senza pregiudizi, senza manipolazioni, senza omissioni.
Utopia? Forse.
Eppure non sarebbe necessario rinunciare alle proprie idee, rinunciare
a perorarle, anche con energia e passione; sarebbe sufficiente non
negare, stravolgere o demonizzare le idee altrui. Bisognerebbe avere
l’onestà di esporle per come
realmente sono e il coraggio
di tollerare da parte di un figlio una scelta che non condividiamo.
E’ vero che nel
nostro paese non si mandano i bambini in piazza con i kalashnikov come
ci siamo tristemente abituati a vedere in tv, e qui da noi l’infanzia
sembra essere un mondo dorato, ovattato e ultraprotetto; eppure quante
piccole grandi violenze anche nei confronti dei nostri bambini!
Negli anni della
mia infanzia, si raccomandava sempre ai bambini di rispondere, alla
fatale domanda: “vuoi più bene a mamma o a
papà?”, con l’ipocrita frase: “a
tutti e due”. E nessuno si poneva mai il dubbio di quanto
quella frase potesse essere angosciante per un bimbo. Gli si faceva
una domanda chiedendogli di essere sincero, ma gli si era già
impartita la risposta oggi diremmo politically correct; quindi
se rispondeva “tutti e due”, aveva l’impressione di aver mentito. Se
rispondeva “mamma” oppure “papà”, si sentiva in colpa sia per aver
trasgredito una regola, sia nei confronti del genitore non prescelto.
Colpa che gli adulti contribuivano ad alimentare, cercando di
convincerlo dell’errore... di aver detto la verità.
Oggi non va molto
meglio. Si chiede ai bambini di esprimere liberamente quello che
realmente pensano, ma non si danno loro gli
strumenti per pensare con la propria testa,
non si forniscono loro fonti di
informazione diversificate e alla loro portata; non li si educa
all’idea che possono esistere molti
differenti punti di vista sullo stesso argomento; li si
coinvolge però in problematiche e condotte che non sono assolutamente
in grado di comprendere.
Prendiamo un
esempio recente: la manifestazione contro la riforma della scuola. Una
manifestazione, come è noto, indetta da rappresentanti esclusivamente
di una parte politica. Senza entrare nel merito dei motivi, e
tralasciando il problema non secondario dell’esibizione di minori,
guardiamo al semplice avvenimento. Si sono visti bambini delle
elementari, mescolati a insegnanti, genitori, politici, sindaci e
sindacalisti, ripetere slogan ed esibire cartelli e striscioni.
Cartelli ideati da loro? Slogan inventati da loro? Naturalmente no.
Perché potessero farlo, ci sarebbe dovuto essere
un gigantesco impegno a monte:
ad esempio la lettura in classe di tutta la legge 53,
l’interpretazione e la discussione critica della stessa. L’esame
approfondito di ogni articolo e il confronto con la legge precedente,
ovviamente con l’aiuto di commentatori pro e contro (il pluralismo,
questo sconosciuto!). Il tutto tradotto in termini comprensibili a
bambini così piccoli. Niente di tutto questo: troppo complicato,
faticoso, difficile, praticamente impossibile.
Ma è sbagliato
credere che tutto ciò non abbia insegnato nulla ai bambini: ha
insegnato che è ammissibile la superficialità e la manipolazione, che
è legittima la protesta a base di insulti e disprezzo, che
la nostra verità è l’unica
possibile e chiunque non la pensi così deve essere
ostracizzato; a cominciare magari dal compagno di classe i cui
genitori non erano in corteo perché sono dell’altra parte politica,
oppure semplicemente perché trovano la legge attuale migliore della
precedente.
Hanno anche
imparato che il nostro è un paese dove la libertà “è in pericolo”, ma
in cui si può mettere in atto qualsiasi forma di protesta, anche
aggressiva e sprezzante, nei confronti di chi è stato eletto
democraticamente e - scandalo! - si permette di governare. Cosa
potranno mai pensare questi bambini dei milioni di loro connazionali
che non la pensano come mamma e papà?
E anche un’altra cosa hanno imparato: che non è necessario
conoscere e capire per poter scegliere. Tanto ci sarà sempre qualcuno pronto a suggerire, senza la
seccatura di dover dimostrare nulla, cosa bisogna dire, cosa bisogna
pensare, da quale parte è l’unica, certa, indiscutibile Verità.
(Gennaio 2004)
L’Autenticità
Una
gentile amica mi ha posto delle domande sull’Autenticità, tema
stranamente di moda, in un’epoca in cui le apparenze sono ritenute ben
più importanti della sostanza.
-
Cos'è l'autenticità?
Ho
l’abitudine di iniziare le mie riflessioni su qualunque tema, partendo
dal significato più letterale dei termini. Il dizionario di lingua
italiana, su ciò che è autentico (dal greco authenticòs: che è
fatto da sé) recita “che proviene con certezza da chi ne è indicato
quale autore”.
In realtà
essere autentici è esattamente questo, né più né meno: se penso o dico
qualcosa; se esprimo una convinzione o un’emozione; se mi comporto in
un determinato modo, ebbene sono autentico quando quella convinzione,
o emozione, o comportamento proviene proprio da me, è frutto
delle mie esperienze e del mio ragionamento, e non di suggerimenti o
imposizioni provenienti dall’esterno.
-
Quindi cosa vuol dire essere autentici?
Forse la
definizione più semplice è “essere se stessi”. Ma per essere se
stessi, bisogna sapere chi si è realmente, bisogna conoscersi.
Quando e se ci si conosce, allora si è in grado di essere autentici
innanzitutto con se stessi. Manifestarsi o no agli altri è un problema
secondario, o un falso problema.
Come
si può imparare a conoscersi? Ad esempio cercando di osservarsi come
dal di fuori ed interrogandosi su quelle che pensiamo siano le nostre
convinzioni. Sono veramente le nostre convinzioni? E se
improvvisamente non le sentiamo più come nostre, da dove o da
chi provengono?
Ma io
la penso veramente così?
-
L'autenticità può rendere vulnerabili?
Si è più o
meno vulnerabili per tanti motivi. In generale, tanto più ci si sente
sicuri di sé e saldi e forti sia nelle certezze acquisite che nei
propri dubbi, tanto più ci si può permettere di esporsi; di
esporre anche i propri limiti e le proprie debolezze.
Il rischio,
molto probabile, è che qualcuno possa approfittarne. L’importante è
saperlo e domandarsi se si è in grado di tollerare un eventuale
“attacco” poco amichevole: se non ci si sente abbastanza forti, è
saggio esporsi di meno, ma è essenziale chiedersene il perché.
- Si
può “imparare” ad essere autentici?
Ho sempre
amato quella famosa poesia di Kipling “If”, un vero e proprio manuale
per imparare ad essere Uomo (o, naturalmente, Donna), nel senso pieno
del termine.
Proviamo a
chiederci:
Quanto
conta per me il giudizio altrui?
La mia
sicurezza davvero dipende da ciò che gli altri pensano di me?
Quanto
spesso mi adeguo a ciò che gli altri si aspettano da me?
Quanto di
me sono disposto a sacrificare pur di piacere agli altri?
Riesco a
mettere in discussione luoghi comuni, mode e tendenze, senza sentirmi
“out”?
-
Fino a che punto si può essere autentici con gli altri?
Non è
obbligatorio, ma certamente si può se... si vuole.
Dipende da
molti fattori: per esempio dal grado di confidenza e di intimità che
si ha con una determinata persona; solo una conoscenza non
superficiale ci consente di prevedere con ragionevole approssimazione
se e quanto quella persona potrebbe approfittarne.
E comunque
non ridurrei il problema alla scelta tra essere autentici o essere
falsi. Chi ha stabilito che si debba per forza esternare tutto
quello che pensiamo? Intanto non è detto che agli altri interessi, e
comunque ci si può esprimere moderatamente, senza per questo
mentire o essere falsi.
Trovare il
punto di equilibrio è sempre la cosa più difficile: il punto di
equilibrio tra il legittimo (ma non obbligatorio) desiderio di
esprimersi per quello che realmente si è, la necessità di doversi
difendere in una società - la nostra - (che nonostante i continui
solenni proclami sul valore della comprensione e della tolleranza non
è certo molto tenera), e il rispetto delle regole sociali.
Un buon
modo per misurare la nostra “intelligenza sociale” è quello di
osservare, oltre che noi stessi, anche le reazioni degli altri. Ad
esempio, se, la maggior parte delle volte che interagiamo con gli
altri, provochiamo reazioni stizzite, o aggressive, o di malcelato
fastidio, domandiamoci il perché; cosa può esserci nel nostro
comportamento che irrita gli altri? Forse abbiamo un’eccessiva
tendenza a distribuire agli altri opinioni e saggi consigli non
richiesti; forse reagiamo con eccessiva veemenza quando sono gli altri
a cercare di imporci opinioni e consigli. Una volta scoperto il
motivo, potremmo anche decidere di continuare ...ad irritarli, ma
almeno sarà una decisione consapevole, no?
Oppure, con
spirito ed autoironia potremmo rendere accettabile un nostro difetto
dichiarandolo in anticipo. Per esempio: scusatemi, io sono un
logorroico: se parlo troppo, per favore interrompetemi!
Il senso
della misura e soprattutto, so di ripetermi, la conoscenza di sé
stessi - pregi, difetti, limiti - e un’onesta sincera autocritica
possono aiutare.
In fondo
essere autenticamente se stessi è, molto semplicemente, una questione
di libertà, libertà che - come tutti sappiamo - dovrebbe avere come
unico limite il rispetto per gli altri, per le regole della convivenza
civile e per le leggi che una determinata società si è data e
condivide.
-
Essere troppo sinceri, come quando onestamente si riconosce un errore,
come già detto, può indurre gli altri ad approfittarne. Che fare?
Se siamo
sicuri di agire nel modo giusto, non dovremmo preoccuparci della
reazione altrui.
Se penso di
dovermi scusare, credo che il modo migliore sia il più semplice:
“chiedo scusa, mi rendo conto che ho sbagliato ad agire così”. Non è
necessario spiegare il perché e il percome. Questo riguarda solo noi,
affinché anche un errore diventi un’esperienza costruttiva.
- Giustificarsi riconoscendo un errore per scaricarsi la
coscienza è da considerare autenticità o viltà?
Credo che viltà sia
il contrario di coraggio, e non di autenticità. Anche se indubbiamente
a volte, per essere autentici ci vuole coraggio! Ma potrebbe volerci
coraggio anche per rinunciare alla propria autenticità, se le
circostanze lo richiedono.
Venendo
all’esempio, direi che quando si è sinceramente disposti ad ammettere
un errore, o a chiedere scusa, non dovrebbe essere necessario
giustificarsi.
Se ci si pensa
bene, giustificarsi in realtà equivale a non ammettere l’
errore, a non chiedere scusa. Se io penso di avere delle
giustificazioni al mio operato, questo vuol dire che non ho sbagliato
e quindi non devo chiedere scusa.
-
Quando non siamo d’accordo con qualcuno, è meglio tacere rinunciando
ad essere autentici e rischiando di sembrare deboli, o dobbiamo
esprimerci sempre e comunque? E’ utile l’arma dell’ironia?
Un ottimo
intelligente sistema per non scatenare l’aggressività altrui è
iniziare il discorso in modo conciliante: “Sono d’accordo, ma forse
andrebbe anche considerato che ...” In quanto al sembrare (o
sentirsi?) deboli, dipende dalla forza degli argomenti che
abbiamo a sostegno del nostro punto di vista.
L’ironia infine è
un’arma eccezionale, ma come tutte le armi deve essere usata
con cautela e prudenza, perché può anche ferire. Il nostro
interlocutore può sentirsi preso in giro, oppure è permaloso, oppure
l’argomento per qualche motivo lo tocca più di quanto appaia. Nel
dubbio, a volte è meglio non raccogliere, oppure interessarsi
alle motivazioni altrui con semplici domande e con disponibilità ad
ascoltare le risposte: “Come mai dici questo?”
Se l’altro poi non
vi chiede come la pensate voi… non è essenziale dirglielo. Oppure vi
sembra indispensabile?
(Marzo2004)
Libertà
obbligatoria, opinioni e civiltà
In una trasmissione
televisiva di successo in cui si insegna a diventare famosi, ho
assistito ad un incredibile dialogo: ad Aldo Busi che, a proposito di
un tema assegnato ai ragazzi, diceva ad uno di essi “Tu sei andato
fuori traccia”, uno sbarbatello ventenne teneramente ignorante
rispondeva “Io non le permetto...”. Aldo Busi, che può piacere o non
piacere, ma è indubbio che sia un grande scrittore, replicava
esterrefatto “Sono io che non ti permetto; qui sono io il maestro e tu
sei l’allievo. Potremmo discuterne, ma alla fine io decido, non tu, se
sei fuori traccia”.
In un’altra
trasmissione, dove un vero giudice emette sentenze in un finto
tribunale, il pubblico manifesta la propria “opinione” su chi ha torto
e chi ha ragione dei contendenti, spesso criticando le decisioni del
giudice, senza mai minimamente preoccuparsi di ciò che dice la legge
in proposito. Nella bizzarra ma diffusa convinzione che un giudice
emetta un verdetto non applicando la
legge e utilizzando la
giurisprudenza, ma decidendo autonomamente ciò che per lui
è “giusto”, esprimendo cioè nulla di più che un’opinione.
Frequentemente
capita di sentire subrettine, grandi fratelli, figuranti di finto
pubblico, il cui unico mestiere nella vita consiste nel mettere
insieme gettoni di presenza come comparse, tacitare con
arrogante determinazione esperti di ogni genere
- gente che ha dedicato la vita a studiare
faticosamente la propria materia - usando come passe-partout
frasi come: questo è un paese libero, c’è la democrazia,
se non sono d’accordo ho il diritto di dirlo... Ma la più
raccapricciante di queste frasi è: è una mia opinione!
Mi sono riferita a
trasmissioni televisive perché la TV, oltre che essere una
rappresentazione della realtà, è una realtà che tutti conosciamo. Ma
lo stesso meccanismo può riprodursi con le stesse modalità in ogni
altra situazione. Una volta ho raccolto lo sfogo di una signora: era
molto arrabbiata con i chirurghi che avevano avuto l’ardire di
intubarla durante un intervento, avendole anche fatto un’anestesia
endovena. E’ stato inutile spiegarle - da medico - che le due tecniche
avevano finalità diverse: Io resto della mia opinione.
Come è stato
inutile spiegare ad un altro signore che la sua cardiopatia, pur
contenendo nel nome la radice “reuma”, non era stata causata
dall’umidità presa al mare.
Cos’hanno in comune
questi episodi, a cui se ne potrebbero aggiungere quotidianamente
decine e decine?
Riassumerei il
fenomeno in tre convinzioni:
1.
che tutto sia
“opinione” e che tutte le opinioni
si equivalgano
2.
che c’è la
“libertà”
3.
che siamo tutti
“uguali”
Punto primo.
L’opinione, ovvero “idea, giudizio, o convincimento soggettivo”
(Zingarelli 2002), è un’opinione in quanto è appunto soggettiva.
Riguarda cioè un argomento che non è oggetto di studi e ricerche i cui
risultati sono tanto meno soggettivi, quanto più, in modo
indirettamente proporzionale, sono da ritenersi oggettivi. Faccio un
esempio: ognuno di noi può avere un’opinione sul fatto che in un
qualunque altro pianeta del sistema solare esistano esseri viventi
simili a noi. Al momento attuale, nessuno, neppure gli astronomi,
possono dire una parola risolutiva su questo tema.
Viceversa, se io
immagino che la distanza dalla terra alla luna possa essere di 300 km,
ed un astronomo asserisce che essa oscilla tra 363.296 e 405.503 Km,
io sto esprimendo un’opinione, lui no. In realtà, su alcuni argomenti,
laddove la soggettività non ha motivo di essere considerata, le
opinioni non dovrebbero neppure esistere.
Punto secondo.
La libertà:
splendida parola carica di nobili significati, ma anche di curiosi
equivoci. Ad esempio: se è vero che ho la libertà di pensare ciò che
voglio, e che avrei anche il diritto di esprimerlo, non è scritto da
nessuna parte che io abbia l’obbligo
di farlo! Forse dovrei di volta in volta
considerarne l’opportunità
valutando la circostanza, l’ambiente, il momento. Quand’ero piccola,
mi dicevano: se pure pensi che una persona è brutta o antipatica, non
è necessario dirglielo. Oggi si crede che non dire sempre, a
tutti i costi, in tutte le occasioni, ciò che si pensa, sia una
mancanza di spontaneità (!), o addirittura un’ipocrisia. Ma
siamo sicuri che sia veramente così? Eppure questa è la stessa epoca
in cui si sono introdotti termini come nonvedente, nonudente,
diversamente abile, per evitare di essere troppo espliciti.
Questo cosa significa? Che si sta attuando un nuovo genere di
discriminazione ritenendo lecito scaricare
tutta la propria frustrazione e aggressività purché la vittima
sia vedente, udente, e normalmente abile?
Terzo punto.
Siamo tutti uguali.
Mi chiedo: la gazzella è uguale al leone? Un bambino di un villaggio
ruandese è uguale ad un bambino di Helsinki? Er Piotta è uguale a
Beethoven? Certo, sono rispettivamente animali, bambini,
uomini...
Che vuol dire
essere uguali? Ogni essere
vivente, animale o vegetale, ogni pietra e ogni goccia d’acqua, ogni
attimo del tempo e ogni millimetro dello spazio, tutto ciò che è
conosciuto e conoscibile è unico, e quindi diverso.
Come dice Michel de Montaigne “la qualità più universale è la
diversità”. In altri termini, non c’è nulla di più
artificiale dell’uguaglianza.
Eppure
l’uguaglianza è un Valore: lo sappiamo tutti. Egalité!
proclamava la rivoluzione francese. Ma anche su questo concetto, come
su quello di Libertà, si è instaurato un colossale equivoco.
L’Uguaglianza è un valore quando esprime un
principio, sociale, politico,
morale. Principio e aspirazione ideale che si riferisce
all’uguaglianza dei diritti, all’uguaglianza davanti alla
legge, all’uguaglianza rispetto alle opportunità di
sopravvivenza e di qualità della vita.
Ma a parte ciò,
l’uguaglianza, come dato di realtà, semplicemente non esiste.
Allo stesso modo
non esiste, in nessuna società, l’uguaglianza dei
ruoli: un docente non è uguale
ad uno studente, uno scienziato non è uguale ad un artigiano, un
genitore non è uguale al figlio, un artista non è uguale ad un
informatico. Alcuni ruoli poi implicano necessariamente una gerarchia,
anche se talvolta relativa e limitata ad un determinato contesto.
Tornando alla
trasmissione di cui parlavo all’inizio, il pubblico è autorizzato
(anzi direi che viene istigato) ad esprimere liberamente il
proprio pensiero. Non sono così ingenua da non pensare che certi
personaggi siano selezionati e
incaricati dagli autori per solleticare quello che io chiamo l’istinto
del colosseo, ma è palese che in ogni personaggio c’è un ampio margine
di contributo personale. Ad esempio una signora, insegnante o ex
insegnante, è autenticamente severa e bacchetta a destra e a manca,
intervenendo con pesanti critiche e perentori commenti sulla
personalità dei ragazzi, con un intento “pedagogico-formativo” da
evidente deformazione professionale. Atteggiamento che, se è logico e
naturale (senza entrare nel merito dei contenuti) all’interno di una
scuola, in quella sede appare decisamente moralistico, invadente,
fuori luogo. Per non parlare delle esternazioni di certi petulanti
paladini della libertà d’espressione,
in nome della quale attuano un patetico tiro a segno, usando come
bersagli gli indisciplinati ragazzi, a loro volta “liberi pensatori”,
ma ricchi almeno del loro talento.
Sorprendentemente
- ma in fondo quanti si sorprendono? -
alcuni di questi allievi da un lato non si privano del piacere di
contestare apertamente gli insegnanti, dimenticando con tignosa
incoscienza il proprio ruolo di studenti, cioè il motivo stesso della
loro presenza in quel luogo, e dall’altro accettano critiche feroci e
giudizi senza appello da parte di spettatori incompetenti e biliosi,
sia sulle loro capacità artistiche sia sulle caratteristiche della
loro personalità. Come se fosse la cosa più naturale del mondo!
In ottemperanza
appunto alle tre regolette di cui sopra: tutto è “opinione”,
c’è la “libertà”, siamo tutti “uguali”.
La
civiltà di un paese
innegabilmente si misura, tra l’altro, dal grado di
libertà di espressione della
sua popolazione.
Forse ci si
dovrebbe ricordare che si misura anche dalla capacità di non abusarne.
(Aprile 2004)
"Non giudicar la nave stando in terra"
(Proverbio)
Durante i
giorni tristi dello tsunami nel sud-est asiatico, molti furono gli
episodi portati alla ribalta dai mass media. Alcuni passarono quasi
inosservati, compresi piccoli e grandi atti di eroismo, altri furono
più seguiti, più commentati. In genere gli avvenimenti più
sfruttati in interviste e sondaggi sono quelli in cui è più facile
immedesimarsi e, come è logico, le influenze culturali non sono
marginali. E cosa fa più impressione da noi di qualcosa che investa
il debordante istinto materno delle mamme italiane?
Mi
riferisco all’episodio in cui una giovane donna, travolta dall’onda
anomala, fu costretta a scegliere quale dei suoi due bambini tenere
stretto a sé, e quale lasciare andare al proprio destino.
Con
grandissima lucidità, con quella sovrumana forza della
mente e del
cuore che si manifesta solo in
circostanze drammatiche, la madre scelse di tenere il più piccolo,
quello che certamente non avrebbe potuto farcela da solo. Lasciò
andare il più grande, nella speranza che riuscisse a cavarsela con le
sue forze. I fatti le diedero ragione, perché il bambino più grande
riuscì a resistere finché qualcuno lo aiutò a mettersi in salvo.
Ebbene, in
quei giorni ho sentito una valanga di critiche rivolte a questa madre:
ma come aveva potuto scegliere tra i due? come aveva potuto lasciare
andare un figlio verso una morte quasi certa? doveva tenerli tutti e
due!
E’ stato
inutile cercare di far capire ad alcune di queste persone che se una
mano serve ad aggrapparsi, ne resta solo una per trattenere un solo
bambino. E che salvarne uno era meglio che perderne due... E che, dei
due, solo il più grande aveva qualche possibilità di farcela... E che
naturalmente se quella donna avesse potuto fare diversamente,
l’avrebbe fatto...
Alla mia
domanda: tu che avresti fatto?
la risposta continuava ad essere: li avrei
tenuti tutti e due. Lasciando quasi intendere che era meglio
che morissero tutti e tre.
L’ostinata
irragionevolezza di queste reazioni mi ha fatto ripensare ad altre
situazioni in cui scelte difficili e dolorose si impongono, a volte a
chi è preparato e in qualche misura addestrato ad affrontarle, a volte
a chi, casualmente e improvvisamente, viene messo di fronte a
decisioni che mai avrebbe pensato di dover prendere. Inevitabilmente,
quasi che il riuscire a ragionare in
certe circostanze sia segno di colpevole
insensibilità, scattano da parte degli spettatori
critiche irrazionali e giudizi sommari. E la domanda:
tu che faresti? resta senza
risposta.
Molti anni
fa lavoravo da poco in ospedale e, in un reparto di medicina, ho
visto un paziente i cui polsi erano assicurati alle sponde del letto
con delle garze. Ho subito immaginato un titolo in prima pagina:
Ospedale lager! Malato legato al letto! Si trattava di un signore
molto molto anziano, con flebo, ossigeno e vari altri tubicini che
sparivano sotto le lenzuola. Alla caposala che si era avvicinata, una
suora energica e gentile, ho chiesto perché era legato e lei mi ha
risposto che il paziente, affetto da demenza avanzata, appena libero
si strappava tutti i tubicini e si buttava giù dal letto. E,
anticipando la mia successiva domanda, mi disse: lo so, è triste, ma
non possiamo fare altro, ci vorrebbe una persona accanto a lui, per
ventiquattro ore al giorno. E qui abbiamo 40 ricoverati.
Lei che farebbe?
Immagino
che anche ora, leggendo, qualcuno si stia
sconvolgendo-indignando-scandalizzando.
A questo
qualcuno chiedo: lei che farebbe?
di concretamente fattibile?
Ricordo uno
sceneggiato televisivo che raccontava un episodio vero, immagino uno
dei tanti: un gruppo di persone in fuga, una madre con il proprio
piccolo che piange tra le braccia, il pericolo di essere scoperti e
uccisi tutti. Il pianto del bambino soffocato, per sempre.
Quante
volte è stato scelto il sacrificio di uno o di pochi per la salvezza
di molti? E in quanti abbiamo provato a metterci nei panni e nella
testa di chi certe decisioni ha dovuto prenderle e metterle in atto?
Un ultimo
esempio, che vuole essere anche un omaggio, da collega, al coraggio di
quei medici sconosciuti, di guerra o di pace, di prima linea o di
medicina delle catastrofi, che si trovano a dover decidere in pochi
secondi chi aiutare e chi lasciar morire. Che, inghiottendo come un
veleno i propri sentimenti di pietà, sono costretti a scegliere
secondo una fredda razionale terribile ma
utile logica, quelli che hanno più probabilità di sopravvivere.
Portandosi dentro per sempre certi sguardi, in assoluta solitudine.
Com' è
semplice giudicare, quando non tocca a noi! Com' è facile moraleggiare
sulle scelte di chi è chiamato a scegliere senza alcuna possibilità di
delegare ad altri le proprie responsabilità. Com' è comodo far finta
che certe decisioni non siano mai necessarie.
Com' è
rassicurante guardare le navi andar per mare, stando in terra...
La verità è
che non si vuole sentir parlare di queste realtà. Ci mettono di fronte
all’imbarazzante evidenza dei nostri limiti, della nostra solitudine
nelle scelte davvero difficili, della nostra infinita imperfezione.
(Marzo 2005)
"L'eleganza del comportamento è conseguenza di
un sereno dominio delle inclinazioni naturali"
(Giovanni della Casa)
Un passaggio
importante dalla fase infantile alla fase adulta del ciclo vitale di
un essere umano penso sia l’acquisizione delle
competenze sociali. Tale
passaggio coincide in parte con la fine del fisiologico “egocentrismo”
infantile e la graduale presa di coscienza che ogni individuo non è il
centro del mondo, ma è parte di un
sistema.
Per prepararli
all’ingresso nel sistema sociale, una volta ai bambini si insegnava,
tra l’altro, il “Galateo”* che, contrariamente a quanto oggi si crede, non era solo
un insieme di regolette inutili e senza senso che sembravano esistere
solo per essere trasgredite da adolescenti sanamene ribelli, nonché da
adulti sedicenti anticonformisti, e da contestatori per mestiere.
In realtà conteneva
anche, e soprattutto, una serie di indicazioni che erano il collante
della convivenza civile (dove per
civile si intende
progredito, evoluto, educato).
Ora è passato di
moda, sostituito, a volte, dal più trandy
“bon ton” maggiormente
seguito peraltro, insieme alle liste di cosa è
in e cosa è
out, quando suggerisce
atteggiamenti esteriori rientranti nel cosiddetto look.
I bambini vengono
incoraggiati generalmente ad essere sinceri, a non avere segreti, ad
essere spontanei: tutto questo è dovuto per lo più ad una
necessità di controllo –
altresì comprensibile - da parte dei genitori. Ma ad un certo momento
il bambino capisce che non sempre si può essere del tutto spontanei e
sinceri fino in fondo, pena le reazioni scandalizzate o stizzite degli
adulti. E a quel punto viene lasciato solo: ignorando allegramente
l'aspetto dinamico di un
processo formativo, nessuno, a quel punto, si prende la briga di
insegnargli quando e perché le regole valide fino a quel momento non
sono più valide. Insomma improvvisamente non va più bene fare pipì in
pubblico, rifiutarsi di salutare qualcuno, o dire in faccia alla
maestra quanto è brutto quel colore giallo senape della sua
capigliatura. Fortunatamente, pian piano, ogni bambino trova da solo
il proprio equilibrio, e impara a dosare con grande saggezza, e a
volte con furbizia, schiettezza e reticenza, sincerità e innocenti
omissioni. Ma non sempre.
Può succedere,
infatti, che, dopo aver imparato a proprie spese che certe cose
non si fanno
e scatenano nei “grandi” degli
oh! di stupito raccapriccio, il bambino decida di non fare
più nulla spontaneamente, di non esprimere più le proprie idee ed
emozioni neppure se sollecitato, di diventare cioè una di quelle
persone che da adulte vengono definite taciturne o introverse. Oppure,
potrebbe diventare una persona alla perenne ricerca della cosa più
trasgressiva, originale e provocatoria da fare in ciascuna occasione,
cristallizzandosi in una condizione di
adolescenza perpetua, con esiti talvolta irritanti, talvolta
ridicoli. Sono persone facilmente riconoscibili: è sufficiente che ci
sia un cartello di divieto perché si impegnino subito a fare la cosa
vietata sotto il medesimo cartello; nelle conversazioni non concordano
mai, per principio, con nessuno; se fumatori, si accendono la
sigaretta appena le porte della metro si aprono, e non perché non
resistano ancora un minuto, ma solo per affermare con una piccola
trasgressione il loro piccolo diritto all’autodeterminazione.
Per questi “liberi
pensatori” le parole formale,
formalità, formalismo sono bestemmie;
preferirebbero sentirsi chiamare assassini piuttosto che formalisti,
al punto che quest’ultimo termine ha assunto definitivamente una
connotazione negativa.
Peccato che non
sappiano quasi mai contro chi
e contro cosa stanno
combattendo.
Se posso avanzare
un’ipotesi, direi che combattono le antiche contraddizioni che sono
state loro ammannite da bambini.
Eppure, anche senza
rispolverare il vecchio Galateo ormai in pensione, basterebbe
spiegare, al momento giusto, che è un
vantaggio per tutti che agli adulti non siano permessi gli
stessi comportamenti che vengono accolti con un sorriso divertito se
si tratta di bambini. Che le regole
formali della convivenza civile – diverse per ogni società ed
epoca - sono norme e comportamenti convenzionalmente concordati e
adottati da una determinata società, in una data epoca,
per facilitare i rapporti tra le persone.
Che il rispetto di tali regole non è necessariamente sinonimo di
falsità o ipocrisia, ma si traduce spesso in puro e semplice
“rispetto”, lo stesso di cui anche
noi possiamo godere. Che la spontaneità può essere sinonimo di
naturalezza e genuinità, ma anche di primordiale istintività, più
consona all’uomo delle caverne che all’evoluto uomo moderno, al quale
si dovrebbe poter richiedere, senza essere tacciati di bieco ipocrita
conformismo, se non l'“eleganza
del comportamento”, almeno
“un sereno dominio delle inclinazioni naturali”.
Che ignorare o
disprezzare la buona educazione non ha niente a che vedere con la
Libertà.
*
Il noto
trattato del Cinquecento (1550 - 1555) di Monsignor Giovanni della
Casa sulla "buona creanza" e sul corretto comportamento. Ha
influenzato i costumi di gran parte della società occidentale degli
ultimi secoli. Il termine "galateo" deriva da Galeazzo (Galatheus)
Florimonte, il vescovo di Sessa che ha suggerito a Monsignor Giovanni
della Casa di scrivere il trattato.
(Fonte:
http://www.liberliber.it/biblioteca)
(Maggio
2005)
Lettera a Babbo Natale
Caro
Babbo Natale,
è
tanto tempo che non ti scrivo, ma quest’anno voglio sentirmi un po’
egocentricamente bambina e chiederti una lunga lista di doni solo per
me.
Chissà che tu non riesca a portarmene almeno qualcuno...
·
Vorrei un paese in cui ognuno fosse libero di avere delle proprie
opinioni, ma non si sentisse obbligato ad elargirle urbi et orbi.
·
Vorrei un paese in cui i genitori capissero che la cosa migliore
che possono fare per i loro figli è farli camminare con le loro gambe.
·
Vorrei un paese in cui non si sprecassero ore preziose della
propria vita nell’attesa di mezzi di trasporto pubblici sporchi
malandati e inefficienti.
·
Vorrei un paese dove le persone parlassero sottovoce e non
costringessero tutti i presenti nel raggio di un chilometro a venire
edotti degli affari loro.
·
Vorrei un paese in cui il rispetto per tutti fosse talmente
grande che i vecchi si chiamano vecchi, i non vedenti si chiamano
ciechi, i diversamente abili si chiamano handicappati e i neri si
chiamano negri. Le parole sono innocenti.
·
Vorrei un paese dove la responsabilità individuale non venisse
continuamente e allegramente ignorata e le “colpe” sempre attribuite a
qualcun altro.
·
Vorrei un paese dove la gente la smettesse di parlare di pace, e
facesse pace con i propri parenti, colleghi, vicini di casa,
concittadini. Anche con quelli che non la pensano come loro.
·
Vorrei un paese dove la parola “diritti” venisse pronunciata
l’esatto numero di volte in cui è pronunciata la parola “doveri”.
·
Vorrei un paese dove la tolleranza non fosse necessaria, perché
nessuno si pone nella situazione di dover essere tollerato.
·
Vorrei un paese in cui non si pretendesse dagli altri la
soluzione di problemi che non si è in grado di risolvere da soli.
·
Vorrei un paese dove sfogarsi dei propri guai fosse l’eccezione e
non la regola.
·
Vorrei un paese nel quale si discutesse parlando uno alla volta.
Sempre che, per chi ha la parola, sia chiara la differenza tra una
conversazione e una trattazione senza interlocutori.
·
Vorrei un paese in cui si rispettassero impegni e appuntamenti e
le 10 sono le 10 e non le 10 e un quarto, le 10 e mezza, più o meno le
10.
·
Vorrei un paese in cui la gentilezza fosse facoltativa, ma la
buona educazione fosse obbligatoria.
·
Vorrei un paese in cui gli avvocati si adoperassero perché la
legge venga applicata in nome della verità, e non per vincere le
cause.
·
Vorrei un paese in cui i medici agissero secondo sapienza e
coscienza, e i pazienti si convincessero che la medicina non è
onnipotente.
·
Vorrei un paese in cui i giovani sapessero quanto è gratificante
farsi da soli la propria strada.
·
Vorrei un paese in cui non ci fosse discrepanza tra l’uguaglianza
davanti ai diritti/doveri e il valore della diversità.
·
Vorrei un paese in cui chi ha di più, in conoscenza,
intelligenza, talenti, e capacità, non dovesse vergognarsene come di
una colpa.
·
Vorrei un paese in cui a scuola si insegnasse con esercitazioni
pratiche a difendere le ragioni di un altro che non la pensa nello
stesso modo.
·
Vorrei un paese in cui le persone si interrogassero più spesso
sulla genesi delle presunte "proprie" convinzioni.
·
Vorrei un paese in cui si introducesse l’abitudine a rispondere
alle domande. O al limite a rifiutarsi di rispondere.
·
Vorrei un paese in cui le aziende ricominciassero a comunicare
direttamente con i loro utenti/clienti e non attraverso il muro di
gomma dei call center.
·
Vorrei un paese in cui la beneficenza diventasse inutile perché i
destinatari non ne hanno più bisogno.
·
Vorrei un paese in cui termini come serietà, correttezza,
moralità, reputazione, dignità non facessero più sganasciare dalle
risate.
·
Vorrei un paese in cui la mala fede esercitata pubblicamente
fosse considerata un reato.
·
Vorrei un paese in cui si ricominciasse a scrivere lettere, oltre
che sms.
Carissimo Babbo Natale, lo so, sono doni costosi, e tu dirai che
quest’anno si tira la cinghia, che i rincari sono pesanti, che non hai
avuto abbastanza fondi. E poi, hai ragione, forse non sono stata
abbastanza buona...
Pazienza, sarà per il prossimo anno...
Buon
Natale, Babbo Natale!
(Dicembre 2005)
L'involuzione della
specie
Stamattina ho
ricevuto un invito ad un corso di “Formazione alla nonviolenza”.
Ammetto che sono
rimasta alquanto perplessa; sarebbe come dire formazione alla
nonaggressione, al
nonomicidio, alla
nonrapina, al
nonstupro...?
Tanto più assurda
mi appare la necessità di una formazione apposita al non-uso della
violenza, fisica o verbale, in una società - come la nostra - in cui
parallelamente ad un martellante predicare su pace, tolleranza,
comprensione e solidarietà, vengono messe in atto continue e
altrettanto martellanti manifestazioni di pura
aggressività fine a se stessa,
leggi violenza.*
Tralasciando l’aggressività “a mano armata” che spero sia
ancora un reato, e come tale non debba essere oggetto di formazione al
non-uso, limiterei le mie riflessioni alla
violenza verbale.
Ieri, appena uscita
di casa, mi sono trovata la strada bloccata da due auto ferme in
direzioni di marcia opposte, i cui conducenti, novelli Mercuzio e
Tebaldo, si fissavano con occhi di brace attraverso i vetri fumé dei
finestrini dicendo ognuno all’altro: “da
qui io non mi muovo”. Tutti sappiamo com’è finita in quel
di Verona. Vista l’impossibilità di far ragionare almeno quello dei
due che aveva lo spazio sufficiente per procedere
senza perdere la faccia, brandendo
il mio cellulare ho annunciato serafica che stavo chiamando la
polizia. Quattro occhi fiammeggianti di collera si sono appuntati su
di me, ma il numero magico 113 ha magicamente sbloccato la situazione
e con uno stridore di gomme i due contendenti si sono allontanati.
Sono certa che a
molti sarà capitato di assistere a scene simili. Sempre che non
l’abbiano interpretate... Purtroppo non è solo la strada teatro di
furibonde contese sul... nulla. Capita negli uffici, nei negozi, a
scuola, per non parlare dei condomìni, del vicinato, e dei nostri
tranquilli gruppi di famiglia-in-un-interno.
Ma il teatro dei
teatri è la televisione. Grande immensa sorella con l’occhio
instancabilmente puntato sul mondo. E, insieme a tutta la
Grande Violenza che si abbatte
sulla nostra coscienza (per chi ce l’ha), si creano ad arte mille
altre occasioni di piccola violenza, meschina, stupida, gratuita.
Così si assiste
incessantemente all’attacco feroce di gente nota per essere nota ad un
presentatore (per la serie “facce ride”),
ad una canzonetta, ad un cantante o persino ad un abito o una
pettinatura (ogni riferimento al festival di Sanremo non è affatto
casuale); alle zuffe ininterrotte dei cosiddetti reality; agli
indecorosi battibecchi dei vari contenitori in cui gli ospiti
non si distinguono dagli habitué del pubblico s-parlante; al
linciaggio in diretta di ragazzini apparentemente arroganti e
coriacei, ma in definitiva sempre ragazzini, da parte di “adulti”
irresponsabili e villani che, in nome della libertà d’opinione, ci
gratificano della loro profonda incompetenza. Mi sto riferendo con
quest’ultimo esempio alla trasmissione
Amici (nome decisamente da cambiare), osservatorio
preziosissimo per chi, come me, si diletta, per mestiere e per
passione, di comunicazione e dinamiche di
gruppo. Do atto alla De Filippi che per suo merito è
tornata la danza in tv, ma non è più sopportabile che ogni
trasmissione – pur essendo partita in tutt’altro modo – si trasformi
in un colosseo di tutti contro tutti, in cui l’istigazione
alla violenza viene fatta passare come
normale. Ma la cosa più
inquietante l’ha detta proprio la De Filippi, quando le è scappato
di affermare che se la trasmissione esiste e resiste è perché ha
un’alta audience e – indovinate un po’ – come si alza l’audience? Con
le risse, con i figuranti a gettone che seminano maldicenza e
ostilità, con le lacrime di umiliazione e di rabbia di tanti ragazzini
allevati nella convinzione che questo sia il prezzo da pagare al
talento e al successo.
Si straparla di
solidarietà in un’orgia di io-sono–come-te-tu-sei-come-me,
mentre ovunque, con un perverso processo imitativo, dentro e fuori la
tv, proliferano giudizi affilati come lame in un duello, opinioni
irose scagliate come rivalse, piccole misere vendette lanciate, in
realtà, contro una vita – la propria -
sentita come anonima e insulsa. Che spreco di energie!
Ma come è possibile
che una società “sana” accetti tutto questo, anzi no, ne sia
l’artefice?! Se il meccanismo che premia o boccia una trasmissione è
l’audience, allora è il gradimento del pubblico che stabilisce i
programmi, o no? Quindi, o si decide di modificare il meccanismo e si
torna all’idea che, se la televisione non deve necessariamente
educare, almeno non deve diseducare. Oppure dobbiamo
accettare la terrificante idea che
viviamo in una società che si nutre, e nutre i suoi figli, di
un’aggressività sguaiata e crudele che ha l’unico scopo di sfogare
frustrazioni e invidie; una società che sta tirando su dei galletti da
combattimento, povere creature destinate ad uccidere per non essere
uccise.
Ma io
davvero non ci riesco.
Chi mi conosce sa che non sono per l’iperprotezione dei ragazzi, anzi.
Genitori e insegnanti dovrebbero riprendersi con fermezza il loro
ruolo educativo, intervenendo energicamente ogni qualvolta sia
necessario. E neppure mi piace l’ipocrisia, quella di una volta tutta
moine e falsità, tanto meno quella di oggi tutta buonismo e
volemosebene. Tuttavia, senza un controllo razionale dell’attuale
incontinenza verbale, per alcuni – più giovani e sprovveduti - il
passaggio dalla violenza pensata e parlata a quella
agita può essere breve (non a caso
il bullismo è un fenomeno in
preoccupante crescita).
E veniamo alle
ipotetiche cause. Mi perdonino i
sociologi se invado il loro campo, ma ho l’impressione che la nostra
quotidiana violenza spicciola, fruita con pari ingordigia da attori e
spettatori, sia il frutto di una cultura schizofrenica che, mentre
propone il valore della diversità,
impone un generale appiattimento (in
basso) nel tentativo di raggiungere un’uguaglianza
fittizia e l’abolizione della
competitività come cose buone e giuste. Se è giusto che
uguaglianza deve esserci su diritti e doveri, opportunità e
strumenti, pensare che davvero siamo tutti uguali è semplicemente
innaturale, e anche ingiusto. Voler migliorare la propria condizione
materiale, e voler altrettanto aspirare ad una evoluzione
esistenziale, facendo emergere le proprie potenzialità, in una ricerca
del proprio primato, in competizione con se stessi ma anche con gli
altri, è una delle caratteristiche più belle, affascinanti (e
misteriose) degli esseri viventi. Se non fosse così, saremmo ancora
tutti nelle caverne a mangiare carne cruda.
Una giusta e
misurata aggressività e una
corretta competizione sono quelle
che coincidono con l’istinto di sopravvivenza, ci permettono di
affrontare le avversità, di non soccombere alle prevaricazioni, di
migliorare la nostra e l’altrui esistenza. E, a mio parere,
aiutano, paradossalmente, a combattere la
violenza. Queste
componenti dell’animo umano possono essere estremamente positive se
educate e indirizzate, mentre possono essere molto pericolose se
vengono ignorate o represse.
Insomma, penso che
cancellare forzatamente qualcosa di innato è utopico quanto
controproducente: chi non conosce quell’irrefrenabile voglia di
cioccolata che scatta non appena questa viene esclusa da una dieta?
Mi scuso per la
metafora azzardata e un po’... golosa, ma davvero non credo si possa
insegnare la non-violenza, così come mi sembra bizzarro insegnare una
qualsiasi non-qualcosa. Si può invece insegnare, e imparare, a gestire
bene la nostra naturale aggressività, a farne uno strumento utile.
E perché non usare
un po’ di sana aggressività per combattere
il degrado e l’imbarbarimento della nostra società? Proviamo a
far tornare di moda, pur nella competizione,
rispetto ed
eleganza.
Se questo vi sembra
un accorato appello, beh, lo è.
*
Esistono mille definizioni per violenza e aggressività,
ma forse, semplificando al massimo, la differenza fondamentale è che
se l’aggressività può essere finalizzata a qualcosa di positivo e può
- anzi deve – trovare il suo limite nel danno ad altri, la violenza
realizza sempre e comunque un danno per qualcuno, perché quello è il
suo unico scopo.
(Marzo 2006)
Lippi ha ragione
Non mi interessa il
calcio. Ebbene sì, esiste anche qualcuno che riesce a sopravvivere
facendo a meno di questo invadente circo in boxer e calzettoni, non
per snobismo, per carità; solo che se guardo una partita, non riesco a
non distrarmi nei primi 3 minuti. E’ certamente un mio limite.
Però una notizia
sentita casualmente alla vigilia di una partitissima dei mondiali, mi
dà lo spunto per parlare di un fenomeno che non appartiene certo solo
al pianeta calcio. No, no, non ho alcuna intenzione di impantanarmi
nella palude delle grandi truffe, dei mega-intrallazzi, delle
pasticciopoli nazionali.
Lippi ha ragione.
Lippi – confesso
che non so esattamente chi sia salvo il fatto che prepara la nazionale
– ha puntato il dito, forse senza saperlo, su un malcostume
tipicamente e trasversalmente diffuso. Un vizietto che va ben oltre il
mondo del calcio e ben oltre il mondo giornalistico. Con il suo
morbido accento (credo) toscano, ai giornalisti che insistevano per
conoscere in anticipo la formazione della squadra, ha risposto
approssimativamente: se io non rivelo la
formazione “è per non dare vantaggi all’avversario”, l’ho detto tante
volte ma voi non volete cambiare opinione, e continuate a telefonarmi
la sera in albergo.
Ora, immagino che
si possa discutere su questo come su altri punti di vista, ma non ho
sentito, in varie edizioni successive di GR e TG, alcuna discussione
su questa strategia. Mentre, chiarissimo, il titolo di un giornale
radio sentenziava: Lippi “nasconde” la
formazione e apre una dura polemica con i giornalisti.
E nel servizio:
le premesse non sono buone, Lippi “è
nervoso”, sentite come risponde a una semplice domanda…
[GR1 26 giugno 06 ore 8]
Nessun commento
sulle ragioni di tale risposta, pepata sì, ma quanto mai
giusta. Singolare comportamento da parte di chi dovrebbe informare.
Mi è tornato in
mente quanto lamentato da un mio paziente circa i suoi difficili
rapporti con un familiare: quello che
più mi irrita è la sua pretesa di dirmi come io “sono”.
Questi sono solo
due esempi, ma se cominciate a farci caso, vi accorgerete quanto
spesso, in tutte le più svariate circostanze, pubbliche o private, ciò
accade. Quanto spesso i giornalisti come i politici, gli amici come
gli ospiti TV, i condòmini come i colleghi di lavoro, affibbiano
etichette e giudizi su quello che una persona
è, è
stata, o dovrebbe essere,
tanto più quanto più la connotazione è negativa. Lippi è nervoso, tu
sei aggressivo, l’insegnante è troppo duro, il collega è un lavativo.
Saltando sorprendentemente la fase del
“perché”. Naturalmente gli insulti fanno eccezione, essendo
per definizione giudizi negativi diretti e finalizzati a
colpire, ma almeno, per certi versi, leali.
Infinite
discussioni nascono e si esauriscono, ahimè senza vantaggio per
alcuno, nel definirsi reciprocamente, in modo più o meno
intelligente e sottile, o viceversa in modo becero e pesante, senza
mai neppure sfiorare il contenuto
della discussione stessa. In altri termini, non si discute se rivelare
la formazione di una squadra prima di una partita può davvero favorire
l’avversario. Non si discutono le motivazioni di chi ad un referendum
vota sì oppure no. Non si discute quasi mai perché una determinata
scelta – o valutazione, o convinzione, o condotta - può essere più o
meno conveniente di un’altra in campo economico, lavorativo, sociale,
relazionale. No, si discute, spesso si litiga, su CHI dice, pensa,
sceglie o decide una cosa piuttosto che un’altra.
CHI è, in quale
categoria, o
ceto, o
provenienza geografica, o
colore politico, eccetera
eccetera, va inquadrato. E si reagisce a seconda della categoria alla
quale si pensa di appartenere e che si pensa di dover difendere, a
tutti i costi.
I giornalisti che
si sentono offesi se non vengono informati; i familiari che pretendono
di imporre la propria visione della vita; i politici, professionisti o
simpatizzanti, che reclamano il potere come dovuto presumendo di
conoscere l’unica vera Soluzione Globale alle difficoltà del mondo;
gli sportivi che, non dovendo assumersi responsabilità in prima
persona, sanno sempre puntualmente cosa bisogna (o bisognava) fare per
vincere.
L’elenco potrebbe
essere lunghissimo, ma il meccanismo è sempre lo stesso, nei
grandi sistemi come in quelli piccoli piccoli: l’incapacità, o meglio
l’indisponibilità, sempre
più opprimente e pericolosa, ad
ascoltare le ragioni degli altri.
(Giugno 2006)
“Dal fanatismo alla barbarie c'è solo un passo”
(Denis Diderot)
L’effetto butterfly è quello per cui il battito di una
farfalla in Cina può generare un tifone negli Stati Uniti. Questo è
il nucleo della
Teoria della complessità, nata dagli studi del Nobel Ilya
Prigogine (1917-2003).
“Oggetto della Teoria della complessità sono i sistemi complessi,
caratterizzati da numerosi elementi qualitativamente diversi tra di loro, e da numerose connessioni non-lineari tra gli elementi.
Questo significa che piccole variazioni nei comportamenti degli
elementi possono generare effetti inimmaginabili. Ciascuno di noi è un
sistema complesso, costituito da numerosi e diversi elementi in
relazione tra di loro. Sistemi complessi sono anche l’azienda in cui
lavoriamo e le associazioni che frequentiamo. Internet è un sistema
complesso. Cellule, organismi, cervello, economia, reazioni chimiche,
fluidi.” (Luca Comello).
Il caso Englaro è
la farfalla e il tifone è quello che si sta abbattendo sul “sistema
paese”.
Credo sia ormai
inutile e pretestuoso continuare a discutere se le volontà di Eluana
siano o non siano state quelle formalmente accertate da infinite
indagini; se il padre sia un bieco assassino o un eroe sublime; se i
medici implicati siano dei pazzi crudeli o agiscano secondo scienza e
coscienza; se quella povera creatura sia una condannata a morte, o un
corpo condannato a sopravvivere. In definitiva se lo stato vegetativo
è “vita” o non lo è. Non se ne verrà mai fuori. Troppe le parole che
fanno la differenza: come “far” morire, e “lasciare” morire. Troppo
grande e ignobile la strumentalizzazione in atto. Troppi gli
“elementi qualitativamente diversi”
di cui sarebbe necessario tener conto.
Il problema è un
altro.
Il problema è a
monte.
Si chiama Libertà.
E’ incredibile
quanti significati si possono dare a questa parola. E’ una domanda che
faccio spesso nel mio lavoro di medico psicoterapeuta. E le risposte
sono tutte diverse. Perché lo chiedo? Perché io devo aiutare le
persone a trovare la loro libertà, non la mia. Chiedo loro se
sono credenti, oppure no, quali sono i loro ideali, quale - per loro -
il senso della vita.
Se non lo facessi,
come potrei aiutarle?
Questo presuppone
un grande rispetto, e mi costa a volte un grande sforzo. Perché
anch’io ho idee e ideali e convinzioni. Ma io insegno a guidare e a
riconoscere la segnaletica, come dico spesso, non decido la direzione.
Non è mio compito giudicare se la direzione è giusta o sbagliata. Se è
quella che consente ad una persona di raggiungere uno stato di
maggiore equilibrio e benessere, quella è la direzione giusta.
Quand’ero piccola
mi dicevano: ricordati che la tua libertà finisce dove comincia quella
degli altri.
Ho sempre tenuto
fede a questo insegnamento. Non sempre mi viene ricambiata la
cortesia.
Rispettare la
libertà di un’altra persona significa innanzitutto capire su quali
presupposti quella persona costruisce il proprio concetto di libertà.
Chi ha come presupposto una fede religiosa non può che derivare le
proprie convinzioni da quella fede. Chi professa la fede cristiana ad
esempio dice che la vita è un dono del Creatore, che è sacra, e che di
conseguenza non appartiene all’individuo. Giusto, legittimo, coerente.
Ma se il
presupposto non è questo? Se una persona crede in un altro dio, o se
non crede affatto? Potrebbe pensare che la vita è un fenomeno
biologico con un inizio e una fine e che, essendo priva di carattere
sacro, appartiene all’individuo. Giusto, legittimo, coerente.
I primi
identificano la “vita” con la presenza dello Spirito, i secondi con
uno stato di coscienza che consenta una pur minima vita di relazione.
I primi pensano che
sia il Dio in cui credono a decidere se dare o togliere la vita, i
secondi credono nell’autodeterminazione.
Molti anni fa, ho
conosciuto una splendida persona, intelligente, colta, amante della
vita, che, dopo un intervento per cancro polmonare, scelse di non
fare più alcun controllo. Stentavo a capire e chiesi alla moglie come
viveva questa decisione. Disse: è un suo diritto, lo stesso che
vorrei per me. Il nostro è sempre stato un amore fondato sul rispetto.
E’ morto qualche anno dopo, sereno, nel suo letto.
E se
l’autodeterminazione non è possibile? Sono molte le circostanze in cui
qualcuno, legittimato a farlo, prende decisioni per altri. I testimoni
di Geova hanno ottenuto, per i loro figli minorenni, che vengano
evitate le trasfusioni di sangue. Se una persona in stato di
incoscienza ha bisogno di un intervento urgente, sono i familiari a
dare l’assenso. Ma, anche uscendo dal campo medico, un bambino,
generalmente viene battezzato da neonato, eppure non si sa se, da
grande, vorrà abbracciare o no la fede cattolica.
Certo, si può
credere, o no, nella Famiglia come istituzione. Ma se ha un senso
l’istituzione della famiglia, allora i genitori sono legittimati a
prendere decisioni per i figli. Perché, fino a prova contraria,
si suppone che i genitori conoscano e amino i propri figli più di
chiunque altro e decidano per loro il meglio.
Le leggi possono
essere giuste o sbagliate, perché fatte dagli uomini, ciò nonostante
vanno rispettate. Ma ci sono temi su cui l’essere umano, se è onesto e
consapevole della propria limitatezza, continuerà ad arrovellarsi,
senza trovare mai risposte definitive. Su questa "soglia" bisogna
avere il coraggio di fermarsi, nell'assoluto rispetto delle reciproche
posizioni. E solo una cosa – pur nella sua imperfezione - può ridurre
il numero degli errori, e degli orrori: la Libertà della coscienza
individuale.
Altrimenti è
fanatismo, quello dei proclami, delle urla, degli insulti,
dell’ignoranza spacciata per opinione, della mistificazione spacciata
per nobiltà d’animo, quello dei giudizi sommari e delle condanne senza
appello. Di chi? Di chi la pensa diversamente, è ovvio.
Il fanatismo inizia
laddove chiunque, convinto delle proprie infallibili verità, non si
limiti più ad applicarle per sé e per le persone di cui ha la
legittima tutela, ma inizi ad imporle ad altri. E se, per farlo,
comincia ad usare la Violenza delle parole o la Forza, fosse pure la
forza delle leggi, siamo alla barbarie.
(9 Febbraio
2009)
Libertà equivalenti
Molti anni fa, mi
capitò di discutere con un signore il quale sosteneva che la sua
libertà di fumare (nell’ambiente in cui ci trovavamo entrambi) fosse
“equivalente” alla mia libertà di chiedergli di non fumare. Fermo
restando che le due libertà non erano – nella medesima unità
spazio-temporale – conciliabili, in quanto l’esercizio dell’una
avrebbe limitato l’altra, non potevano tuttavia dirsi equivalenti per
il seguente ragionamento. L’apparato respiratorio è costruito per
respirare aria pulita. E’ un diritto di tutti respirare aria pulita.
La libertà di A di esercitare il diritto di respirare aria pulita non
danneggia la salute di B. La libertà di B di fumare danneggia la
salute, la sua e quella di A. Ergo, se un giudice avesse dovuto
scegliere chi dei due era tenuto a rinunciare alla propria libertà per
lasciare spazio a quella dell’altro, avrebbe scelto B e non A.
Lo stesso esercizio
di logica può essere fatto per molte altre situazioni. E, in
moltissime situazioni, se la libertà di uno limita o esclude quella
dell’altro, è inevitabile scegliere a quale dare priorità.
Viceversa esistono
situazioni in cui non è affatto necessario scegliere, perché una
libertà individuale non intaccherebbe minimamente la libertà altrui.
La querelle sul
testamento biologico poggia su talune questioni a mio avviso
irrisolvibili. Ne riassumo alcune:
·
se un
essere umano ha il diritto di decidere per la propria vita, oppure no
·
se la
vita sia un bene assoluto, a prescindere dalla qualità, oppure no
·
se lo
stato vegetativo sia vita, oppure no
·
se la
nutrizione artificiale sia un atto medico, oppure no
·
se in
mancanza di volontà scritte siano valide volontà espresse verbalmente,
oppure no
·
se
sono valide volontà scritte quando si sta bene, non potendo prevedere
come si starebbe in condizioni diverse, oppure no
Ritenendole, come
dicevo, questioni non risolvibili in senso univoco, trovo inutile e
pretestuoso discuterne. Quindi mi limiterò a delle riflessioni
generiche.
Rispetto al primo
punto (e in parte al secondo), va da sé che la risposta è strettamente
legata al fatto di credere o non credere in un Creatore le cui volontà
vanno (o andrebbero) rispettate. Ciò che si fa (o si dovrebbe fare) in
nome di una Fede, attiene alla coscienza di ciascun credente.
Riguardo all’ultimo punto, invece, vorrei nuovamente fare
un piccolo esercizio di logica. Un organismo umano (e non entro nella
polemica relativa ai vari stati di coscienza) in teoria potrebbe
essere tenuto in funzione artificialmente all'infinito. Se le tecniche
si evolvono abbastanza, si potrebbe addirittura “conservare” dei
cadaveri, in attesa che possano essere risvegliati. Non è una boutade,
ma è cronaca che alcuni signori, dotati evidentemente di grandi mezzi,
sembra si siano fatti ibernare post-mortem esattamente con questo
obiettivo: essere riportati in vita nel momento in cui la scienza
fosse pronta.
Uno dei punti più controversi del testamento biologico è
appunto l’eventualità di un ripensamento, particolarmente nel caso in
cui nuove terapie e/o tecnologie fossero in grado di modificare gli
esiti precedentemente ipotizzati di un determinato quadro clinico.
Sembrerebbe infatti che nobili paladini più realisti del re,
pur non avendo alcun intento di stilare un proprio biotestamento,
siano seriamente e altruisticamente preoccupati per gli eventuali
ripensamenti di chi, con le idee abbastanza chiare e assumendosene la
responsabilità, il testamento vuole farlo. A suo rischio e pericolo.
Ma, ironia a parte, se si volesse davvero tener conto delle
diverse opinioni, credenze, culture, religioni, se si volesse in altri
termini rispettare davvero le Idee e la Libertà di ognuno, come
dovrebbe essere un testamento biologico? Necessariamente individuale,
articolato e personalizzato, un documento in cui una persona, in
grado di intendere e volere, possa esprimere nei particolari e senza
vincoli le proprie intenzioni e, volendo, le proprie motivazioni.
Potrebbero davvero essere espresse tante libertà
equivalenti, tutte legittime, tutte degne di rispetto.
Una persona potrebbe chiedere di essere mantenuta in vita
in ogni caso, con ogni mezzo disponibile al presente o in futuro,
chiedendo magari nel contempo un sostegno per la propria famiglia.
Oppure, pur rifiutando l’accanimento, ma temendo di
perdere una possibile opportunità di guarigione offerta dalla scienza
in tempi successivi alla stesura del testamento, potrebbe indicare
entro quali limiti contenere i trattamenti atti a prolungare la
sopravvivenza.
Oppure, potrebbe accettare terapie anti-dolore e rifiutare
altri trattamenti medici e nutrizione artificiale non finalizzati alla
guarigione. In questo caso dovrebbe anche essere ritenuta capace di
scegliere tra il rischio di cambiare idea senza poterlo comunicare, e
il rischio di essere condannata a vivere per forza, in attesa di
risvegliarsi (in condizioni intuibili) per ipotetici progressi
terapeutici; insomma, tra i due rischi, un individuo dovrebbe avere il
diritto – per se stesso - di scegliere consapevolmente il primo.
Anche l’eventuale designazione di una persona di fiducia
che, in caso di necessità, possa decidere al posto dell’interessato, è
un atto che dovrebbe spettare al singolo individuo e a nessun altro.
Può essere una scelta sbagliata? Certo: come tutto ciò che è umano.
Solo che, nel dubbio, si dovrebbe esser liberi, anche in questo caso,
di correre il rischio di sbagliare una propria scelta,
piuttosto che il rischio di cadere in mani (e teste) sbagliate, non in
linea cioè con la propria personale visione della vita. O a qualcuno è
dato di dirci in chi riporre la nostra fiducia?
Con un pizzico di onestà, non è difficile rendersi conto
che nessuna delle scelte personali esposte (ma ne sono possibili molte
altre) potrebbe, in alcun modo, neppure scalfire la libertà altrui.
Allora mi chiedo: per quale motivo non si riesce a
stabilire regole condivise che consentano o persino aumentino la
libertà individuale, pur non venendo intaccata quella altrui? Per
quale motivo si punta invece a soluzioni uguali per tutti, che,
accreditando legittime scelte di alcuni penalizzano inevitabilmente
altrettanto legittime scelte di altri, su temi che dovrebbero essere
privati e su diritti che dovrebbero essere inviolabili?
Parafrasando il motto orwelliano, che ci siano libertà più
equivalenti di altre?
(Marzo 2009)
Limiti
Dall’individuo
“sincero” alla società violenta
Sarà capitato anche
a voi che un amico, nel bel mezzo di una tranquilla chiacchierata,
abbia lanciato strali velenosi su qualcosa o qualcuno che voi invece
apprezzate, senza troppo preoccuparsi della vostra opinione. Certo, si
possono sempre ignorare le frecciate buttate lì quasi per caso, far
finta di nulla, o tentare di proporre – generalmente inascoltati - un
diverso punto di vista, magari meno emotivo; ma se ciò è relativamente
facile quando la frecciata riguarda una squadra di calcio, è meno
facile se riguarda, ad esempio, la politica.
Allora forse avete
tentato di spiegare all’amico, con il tatto dovuto, che, neppure in
nome dell’amicizia, ha il diritto di insultare qualcuno, solo perché a
lui non piace.
E’ probabile che la
reazione stizzita sia stata: io sono una persona sincera, se
giudico bene o male qualcuno, mi sento libero di dirlo chiaramente.
Il sillogismo
prospettato è questo: essere liberi
significa essere sinceri; essere sinceri equivale a dire tutto quello
che si pensa; ergo, dico sempre quello che penso, anche se
quello che penso è offensivo per chi la pensa diversamente.
Proverò a
dimostrare che il ragionamento non quadra.
Immagino che si
possa concordare sul fatto che, alla base di un’amicizia, dovrebbe
esserci la stima. Si possono avere
gusti e passioni in comune, ma possono esistere bellissime amicizie
anche tra persone completamente diverse per temperamento, interessi,
convinzioni. Purché ci sia stima reciproca, cioè quella particolare
disposizione mentale che mi fa credere che se tu la pensi in un certo
modo, avrai le tue buone ragioni; ne consegue che se io offendessi
qualcuno o qualcosa che tu apprezzi, solo perché a me non piace,
offenderei anche te, le tue idee, la tua sensibilità. Se non lo
faccio non è per ipocrisia o viltà, ma per una forma di delicatezza e
– paradossalmente – autentica sincerità, non solo formale: se è
vero che rispetto te, rispetto le tue idee, anche se non le
condivido. Va da sé che se le tue convinzioni sono per me
inaccettabili, non ha senso parlare di
amicizia.
Se dalle relazioni
interpersonali si passa al piano collettivo, il discorso cambia di
poco. Basta sostituire al concetto di “sincerità”
quello di “libertà di opinione”.
Negli ultimi anni
il grado di conflittualità sociale si è alzato in modo allarmante, in
proporzione al grado di libertà percepita, portando l’aggressività
espressa a livelli che non esiterei a definire patologici.
Confondere la libertà di opinione con la libertà di insulto, la
libertà di espressione con la libertà di violenza fisica o verbale, la
libertà di informazione con la libertà di insinuazione e calunnia, è
un segnale di profondo malessere sociale. Di
immaturità prima che di
inciviltà. Come dire:
libertà = tutto lecito.
La Libertà (come la
sincerità) non è un bene assoluto, e perde tutto il suo infinito
valore se la si priva della sua connotazione di bene relativo. Il che
è confermato dal fatto che la vera libertà è possibile, per assurdo,
solo all’interno di determinati confini. Confini che non sono più
vissuti come tali quando, trasformandosi in
autoregolazione, diventano
strumento di maggiore libertà.
Limiti discutibili
certo, negoziabili, migliorabili. Limiti su cui l’umanità si confronta
e si confronterà sempre. Ma pur sempre necessari. Dai piccoli
gruppi di ominidi preistorici alle società più moderne e complesse.
Codici non scritti, regolamenti, leggi, comandamenti, costituzioni e
statuti: la libertà non può non essere
regolata. Diventa altro.
La possibilità di
esprimersi nella nostra attuale società, impensabile pochi decenni fa,
sta determinando una specie di black out
dei sistemi di autoregolazione. I mezzi di comunicazione sono
“di massa” e quindi alla portata di tutti. Internet, come qualsiasi
altra innovazione di quella potenza, può produrre meravigliosi
risultati di conoscenza o guai disastrosi, in parte al momento poco
prevedibili.
Prendiamo i forum e
i blog. In quale altro periodo della storia dell’umanità le persone
comuni hanno avuto la possibilità quasi illimitata di esprimere
pubblicamente il proprio pensiero?
Ora è possibile.
Chiunque può partecipare ad un forum o aprire un proprio blog e
mettere in libera uscita pensieri sublimi e intuizioni geniali; così
come sproloqui inopportuni e attacchi violenti, su temi in cui
raramente ha una specifica formazione o qualche competenza.
Spacciando l’arroganza per coraggio, nella maggior parte dei casi
all’ombra protettiva di un nickname (è bizzarro che chi si lascia
andare a insulti e aggressioni si scandalizzerebbe davanti ad una
lettera anonima, eppure scrivere con un nickname è l’equivalente
moderno della vecchia lettera anonima compilata con i caratteri
ritagliati da un giornale…).
Perché questa
insopprimibile esigenza di esercitare una sfrenata tuttologia, spesso
feroce, non assumendosene neppure la responsabilità? Forse queste
persone non riescono ad esprimersi in altri ambiti? Forse non
riescono a farlo in maniera tale da non scatenare reazioni risentite?
Forse trovano più facile insultare chi non si conosce? Per quale
motivo non considerano necessario imporsi dei limiti?
La situazione non è
migliore nel professionismo della comunicazione: quanti politici,
intellettuali, ecclesiastici, accademici, "opinionisti", dediti ad
intemperanze verbali ignobili... Il tutto amplificato da certo
giornalismo furioso, stampato o teletrasmesso. Titoli che sembrano
bombe a mano, spesso neppure congrui al contenuto dell’articolo, testi
zeppi di condizionali, di espressioni denigratorie, formulate sulla
base di ipotesi e insinuazioni precedenti, a loro volta basate su
congetture, in un circolo vizioso e virtuale di conclusioni dedotte
non da fatti accertati e fonti inoppugnabili, ma da ciance faziose, e
non disinteressate.
Parole, e
parolacce, vomitate senza cautela, senza rispetto, senza onestà. Senza
limiti.
Eppure, come la
stima dovrebbe essere alla base di un’amicizia, il rispetto
reciproco dovrebbe essere il catalizzatore irrinunciabile di una
società veramente evoluta e democratica.
Dimenticare, dopo tante battaglie per l’uguaglianza, che il
diritto al rispetto è un primario
diritto di tutti, può condurre all’aberrante convinzione di dover
“raddrizzare” le cose anche con la forza. Ed ecco che la Libertà è
sporcata e avvilita da una nuova barbarie, un analfabetismo
psicologico di ritorno, caratterizzato da comportamenti primitivi,
marcata intolleranza alle frustrazioni e una preoccupante rinuncia a
controllare gli impulsi. Sembra quasi che lo sforzo di trovare il modo
di esprimere le proprie idee, mantenendo il rispetto per quelle degli
altri, sia ritenuto un vezzo démodé, un’inutile perdita di tempo.
Ma il pericolo
maggiore viene sottovalutato: come anche le psiconeuroscienze ci
suggeriscono, l’aggressività fuori controllo da verbale può diventare
facilmente agìta; l’odio delle parole,
come un lievito mefitico, può montare e montare. Trasformarsi in
violenza.
Bisogna fermarsi in
tempo.
O non ha senso parlare di Civiltà.
(Agosto
2009)
Non si
gioca a “testa” o “croce”
... per ogni argomento, è possibile
considerare diversi livelli di discussione,
tutti interconnessi ma anche distinti...
Nel mio lavoro è
vitale, ancorché faticoso ma innegabilmente avvincente, sforzarsi di
ragionare. Ragionare con ordine, senza mescolare i “livelli” di
analisi. Dubbi, domande, dati, più che asserzioni. Senza pretese di
proselitismo.
Prenderò, come
sempre, spunto dall’attualità per spiegare di cosa sto parlando.
Una bollente
polemica, recentemente generata da una
sentenza della “Cour
européenne des droits de l'homme”, e condotta, come ormai è
sconfortante consuetudine, con toni esasperati e bellicosi, sarà lo
spunto: crocefisso sì, crocefisso no.
Riguardo
all’oggetto della discussione, la mia personale opinione non ha alcuna
importanza.
Ho scelto di
suddividere il ragionamento in 3 diversi piani, tralasciandone
necessariamente altri.
1. Il crocefisso come simbolo
C’è chi dice che il
crocefisso è un simbolo solo religioso, e chi sostiene che è un
simbolo culturale.
Nel primo caso,
tenendo conto del Nuovo Concordato del 1984, il crocefisso non
andrebbe esposto nelle scuole statali, in quanto l’Italia è uno stato
laico e non esiste più una “religione di stato”. Non andrebbe altresì
insegnata la religione cattolica, così come qualsiasi altra religione.
Sarebbe invece logico e doveroso che tutte le religioni fossero
studiate nell’ambito dei programmi di storia, letteratura, filosofia,
geografia. Dati storiografici, influenze culturali, conseguenze
politiche sui diversi stati, nelle diverse epoche. Lasciando le cose
dello Spirito ai luoghi di culto.
Nel secondo caso,
vorrebbero continuare ad esporlo nelle scuole quelli che ritengono il
crocefisso simbolo della nostra cultura, o come alcuni dicono, dei
valori dell’occidente.
Una domanda a
latere, da porsi in entrambi i casi, potrebbe essere questa: ammesso
che si tratti di un simbolo, religioso o culturale che sia, perché
proprio il crocefisso? La crocefissione era un supplizio in auge
presso i romani, e prima ancora utilizzato da altri popoli. Non so
molto di teologia e non saprei proprio risalire ai motivi originari di
questa scelta (Costantino?), però, dovendo scegliere un simbolo che
rappresenti le origini della nostra cultura religiosa, perché non una
natività, una resurrezione, un’ascensione al cielo, insomma
un’immagine più spirituale, anziché una raffigurazione della crudeltà
umana?
Ma la domanda
essenziale è: un Paese, uno Stato, una Cultura, hanno davvero bisogno
di simboli?
O dovrebbero
piuttosto essere rappresentati da un popolo che si dimostri saldo nei
valori fondamentali, unito nonostante le differenze, capace di fare
buone leggi e di farle rispettare, e che non si lasci andare a forme
di fanatismo generato dalla paura e dalla coscienza di una intrinseca,
seppur negata, fragilità?
2. Crocefisso e Costituzione
Riporto i 5
articoli inerenti alla religione:
art. 3.
Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
art. 7.
Lo Stato e la
Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e
sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni
dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di
revisione costituzionale.
art. 8. Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere
davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di
organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con
l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono
regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze.
art. 19.
Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di
esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché‚ non si tratti
di riti contrari al buon costume.
art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di
culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di
speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per
la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.
Da questi articoli
si evince che la libertà di religione viene garantita pienamente e non
è data dalla presenza o meno di specifici simboli. In particolare, per
quanto riguarda la religione maggiormente rappresentata, esistono
scuole cattoliche, università cattoliche, associazioni cattoliche.
Possono liberamente riunirsi ed esercitare le rispettive professioni,
attività, o ruoli, in un’ottica religiosa, medici cattolici,
ginecologi cattolici, psicologi cattolici, genitori cattolici,
economisti cattolici, pensionati cattolici, ecc.
La matrice
cattolica della nostra cultura, benché indebolita dall’attuale
tendenza al relativismo, al razionalismo, all’illuminismo e a qualche
altro senza dubbio diabolico “ismo”, è tuttora forte e alla base dei
nostri migliori princìpi di uguaglianza e rispetto e, se non proprio
di “amore” per il prossimo, se non altro di tolleranza e solidarietà.
Almeno nelle intenzioni.
3. Il crocefisso come contrapposizione all’eccessiva invadenza,
reale, temuta, o percepita, di altre culture e/o religioni
E qui la domanda
potrebbe essere: la forza di uno stato e della sua cultura in cosa
consiste? Nella presenza più o meno diffusa di simboli o nella
consapevolezza di valori radicati e condivisi?
Un Paese è
costituito da tutti i cittadini. Di questi, in Italia, la maggior
parte sono cattolici. Ma non tutti. Quindi considerare l’insieme degli
italiani senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione,
è un elemento di forza, mentre considerare le varie fedi religiose
introduce un elemento di divisione e quindi di debolezza.
In altre parole, la
bandiera nazionale può efficacemente rappresentare tutti, la croce no.
Un cittadino italiano non è meno italiano se, nel rispetto delle
leggi, delle religioni e delle libertà altrui, professa una religione
diversa dalla cattolica, oppure, non essendo stato beneficiato del
dono della Fede, è agnostico o ateo; quindi dovrebbe potersi aspettare
che non
siano esposti simboli religiosi nelle scuole statali, senza per questo
essere tacciato di ostilità alla Chiesa, o addirittura di
“cristofobia”. (Termine che tra l’altro non significa nulla. Perché
se ci si riferisce ad una vera "fobia", le questioni di principio non
c’entrano. Se invece ci si riferisce a questioni di principio, il
termine è improprio, oltre che sproporzionato. Come dire che si è
"fobici", ogni qualvolta si è contrari a qualcosa).
Il dibattito non
verte sull’abolizione dei crocefissi in quanto tali, ma sulla loro
presenza nelle aule delle scuole statali. Non va dimenticato che nelle
aule ci sono ragazzi e bambini. Come si può trasmettere loro dei
princìpi di uguaglianza e multiculturalità se si impone un simbolo
rappresentativo di un’unica religione? E come si fa a spiegare ai
bambini che non devono considerare “diverso” un compagno non
cattolico?
Si può essere
d’accordo sulla matrice cristiana della nostra cultura, e sulla
necessità di tutelarla e rafforzarla, e contemporaneamente non essere
d’accordo sull’esposizione del crocefisso nelle scuole.
Sarebbe lecito
chiedersi perché un credente, in particolare un cristiano, portatore
appunto di quei valori di tolleranza e generosità che dovrebbero
contraddistinguerlo, ha bisogno di imporre i propri simboli,
piuttosto che testimoniare la propria fede con l’esempio, ma questo è
ancora un altro discorso o, come dicevo, un altro “livello”.
Ci sono infatti
molti altri aspetti della questione che andrebbero presi in
considerazione (significato di laicità, giurisprudenza sovranazionale,
rapporti stato-chiesa, ecc.). Ma mi fermo qui.
Il mio intento era
solo quello di dimostrare con un esempio che, per ogni argomento, è
possibile considerare diversi livelli di discussione, tutti
interconnessi ma anche distinti.
E, come spesso
accade, non è affatto detto che due persone che concordino ad un
livello, concordino automaticamente ad altri livelli. Pertanto, di
qualsiasi tema si tratti, sarebbe importante trovare i punti in
comune, piuttosto che sottolineare le diversità.
Sempre che si
voglia evitare lo scontro ed arrivare ad una ragionevole soluzione.
Certo, i soliti
maligni, ogni volta che si rinuncia in massa ad usare la testa,
potrebbero chiedersi: cui prodest?
(Novembre
2009)
“Honni
soit qui mal y pense”
(Edoardo III d’Inghilterra)
Non intendo
annoiare con disquisizioni teoriche su “proiezione”, “identificazione
proiettiva”, e altri complessi meccanismi che caratterizzano la psiche
umana (per questo ci sono trattati ed enciclopedie), ma mi servirò
come sempre di esempi pratici e pescati dall’attualità, per
ragionare sulla tendenza ad attribuire
ad altri idee e sentimenti propri. Meccanismo sano e
indispensabile all’empatia, ma che rischia di produrre interpretazioni
distorte della realtà quando genera
presupposti automatici e deduzioni arbitrarie.
Di recente sono
stata coinvolta, mio malgrado e per l’ennesima volta, in un
“dibattito” politico in un contesto che avrebbe dovuto essere di
stampo disciplinare, cioè attinente alla mia professione. Quando ho
dichiarato che non intendevo partecipare al confronto, ho dovuto
incassare le rimostranze di chi affermava che il mio pensiero, proprio
perché differente, costituiva una ricchezza di cui stavo privando i
miei interlocutori. Il presupposto
sottinteso era questo: “io credo –
quindi tutti credono – che la ‘disponibilità al confronto’ sia un
valore; devi ascoltare tutti e confrontarti, sempre e con tutti;
altrimenti non sei disponibile, sei snob ed arrogante”.
Traspariva la granitica credenza che tale presupposto sia universale e
indiscutibile. Se un individuo vede il confronto non come un dogma ma
come “strumento” della conoscenza, da utilizzare scegliendo i momenti,
i contesti, e soprattutto le persone con cui confrontarsi, viene
immediatamente accusato di scegliersi solo interlocutori compiacenti.
Escludere che qualcuno possa essere abbastanza onesto da operare una
scelta di qualità e non di convenienza, svela un altro
presupposto:
“io non mi darei mai la zappa sui piedi,
perché dovresti farlo tu?”.
Altro esempio di
attribuzione automatica di proprie convinzioni ad altri. E’ delle
scorse settimane una significativa situazione venutasi a creare in un
famoso talent show in cui si sfidavano due squadre. Una squadra era
caratterizzata da un scelta di strategie volte a conquistare la
vittoria eliminando i più bravi dell’altra squadra. Si può discutere
se sia più o meno onorevole vincere non sul merito ma evitando la
sfida con gli avversari più pericolosi, ma quello che più faceva
impressione (almeno a me) era l’evidente incapacità di credere alla
buona fede di chi, nell’altra squadra, giocava in modo diverso,
arrivando ad esprimere la propria ammirazione per la bravura degli
antagonisti. E’ sincero? E’ falso? Sta recitando? Beh, nessuno ha
espresso il minimo dubbio. Bisognava “smascherare” il gioco
ipocritamente buonista dell’avversario, secondo questo
presupposto:
“se tu nemico dici di apprezzarmi e
persino mi applaudi, non puoi essere sincero; infatti io, che non sono
ipocrita, non lo farei mai. Quindi io sono quello nobile e tu quello
falso che vuole ingraziarsi il pubblico”. Come se
fosse impossibile anche concepire l’esistenza di una diversa
mentalità. Per la cronaca, quando il vero o presunto buonista si è
arrabbiato per questi attacchi, ed è diventato (quasi) cattivo, i suoi
detrattori hanno potuto dire che avevano ragione a pensare che
fingeva. Eppure, ad evitare lo scontro - peraltro probabilmente
auspicato dagli autori della trasmissione - sarebbe bastato mettere in
dubbio il presupposto.
In un lontano
periodo della mia vita ho fatto teatro. Ad un concorso nazionale fui
premiata con la medaglia d’argento. L’oro andò ad una ragazza di un
gruppo milanese; avevo vent’anni e lei 26; avevo assistito al suo
spettacolo e mi aveva commosso; io ero brava, ma lei lo era di più,
era più matura, più esperta. Era giusto così e lo dissi con sincerità.
Ma era normale, io non ero una “nobile” eccezione; infatti nessuno
pensò che la mia ammirazione fosse una captatio benevolentiae e, se
pure qualcuno lo avesse pensato, si sarebbe vergognato della propria
meschinità. Il presupposto,
allora largamente condiviso, era: “la
lealtà e l’onestà intellettuale sono valori; se vogliamo che gli altri
ci considerino onesti e leali, dobbiamo essere disposti a fare
altrettanto”.
Vorrei essere
smentita su questa mia impressione, ma mi sembra che oggi, rispetto ad
un passato non troppo lontano, ci sia una crescente tendenza ad
interpretare con malignità atteggiamenti altrui onesti, leali o
generosi, bollandoli come ipocriti e anormali. D’altronde come si
possono attribuire ad altri convincimenti e intenti positivi, quando,
pur inconsapevolmente, se ne ha una personale carenza o se ne è del
tutto privi?
Forse anche i
meccanismi psicologici più naturali risentono della cultura e del
clima sociale dominante?
Forse i buoni
sentimenti sono stati aboliti con la messa al bando del libro Cuore?
Bisognerà imparare ad esprimerli sottovoce e di nascosto, in qualche
segreta carboneria? Sì, anch’io ho detestato Cuore e
Piccole donne e Capitani coraggiosi, nella mia adolescenza,
nel tempo della ribellione e della “contestazione”. Ma, come per altri
bambini incautamente buttati via con l’acqua sporca, ora sento
per quelle pagine edificanti e un po’ retoriche una tenerezza e una
nostalgia che non sono solo frutto dell’età.
(Aprile
2010)
Le regole
della casa
“Questa
casa non è un albergo!” Quanti genitori hanno urlato questa
frase, esasperati dai comportamenti dei propri figli
adolescenti. L’albergo è un luogo di passaggio, e gli ospiti non
sono tenuti a comunicare i propri spostamenti; tuttavia, se sono
previsti dei pasti, generalmente esistono degli orari e un
sistema di prenotazione affinché non vi siano troppi imprevisti
che riducano il buon funzionamento del servizio. In una
famiglia, pur nel rispetto della libertà individuale, dovrebbe
esistere un minimo di programmazione che faciliti, o almeno non
ostacoli, la pulizia, il riordino e la preparazione dei pasti,
pena una maggior fatica a carico, quasi sempre, della padrona di
casa. Ma, si sa, gli adolescenti devono saggiare la propria
capacità di “autonomia” e spesso lo fanno senza andare troppo
per il sottile.
Alcuni
anni fa, in 3 o 4 amici, abbiamo formato un piccolo gruppo
teatrale amatoriale, forti delle nostre precedenti esperienze,
risalenti agli anni ’70. Per prima cosa abbiamo steso un
“manifesto”, con intenti, obiettivi e regole. Un manifesto
chiarissimo - tale da non lasciare spazio ad interpretazioni -
che richiedeva, a chi volesse aderire, impegno, rigore e
condivisione dell’obiettivo primario: discostarci dal modo di
fare teatro di tutti gli altri gruppi dello stesso genere,
fondati non su una passione comune, ma “usati” per ottenere
facili sovvenzioni, o come trampolino di lancio per approdare in
televisione, magari come figuranti.
Ebbene,
tra quelli che transitavano nel gruppo, attratti dalla gratuità
e dai primi risultati – raggiunti tra enormi difficoltà e
sacrifici e con dispendio personale anche economico - c’era
sempre qualcuno che cercava di cambiare le regole, chiedeva che
le decisioni fossero prese a maggioranza, lamentava che i
responsabili del gruppo decidessero tutto loro, che quello non
era un metodo democratico, e via contestando, dalla dizione (a
che serve?) all’assegnazione dei ruoli (lui ha più battute di
me…).
Dopo molti
inutili tentativi di far capire che il gruppo non era una cosa
“pubblica”, che la sua stessa esistenza era legata al desiderio
di fare le cose in modo diverso, e soprattutto che nessuno era
stato obbligato ad entrarvi, eravamo infine costretti ad
invitare queste persone a cercare altri spazi, più consoni alle
loro esigenze. Quale altra scelta avevamo? Mettevamo in campo
spiegazioni, ragionamenti, pazienza, logica, persino qualche
compromesso. Non serviva a nulla. Fummo accusati di arroganza…
Come dire che chi fa rispettare una qualunque regola è un
arrogante, e non come individuo (che può essere effettivamente
un arrogante) ma solo per il fatto di esercitare un
diritto-dovere che è insito nel proprio ruolo.
Penso che
per un’associazione, o un blog, o un giornale, valga lo stesso
ragionamento. Se ad esempio un giornale, cartaceo o virtuale, è
gestito privatamente ( = senza soldi pubblici) da volontari che
quell’idea l’hanno avuta e realizzata, che la portano avanti
mettendoci fatica, tempo, impegno e responsabilità, ebbene, in
quel giornale bisognerebbe entrare in punta di piedi,
educatamente, come si entra – o si dovrebbe entrare – in casa
d’altri. E non se ne rifiutano le regole; si può parlarne,
proporre, suggerire, ma l’ultima parola spetta ai “padroni di
casa”. D’altra parte, per attivare un blog basta un quarto d’ora
e si può dare libero sfogo al proprio pensiero e stabilire
proprie regole.
Se si
accettano regole pre-esistenti, non si può poi giudicare
pesantemente chi quelle regole le ha decise, probabilmente dopo
lunghe riflessioni e con profonda convinzione. La vera arroganza
sta in chi pretende come un diritto ciò che non è un diritto.
Credo sia
importante che si distingua tra il diritto alla partecipazione,
e anche alla critica, in un ambito pubblico (spesso obbligato),
e quello in ambito privato (sempre scelto). Se ho da ridire
sulla manutenzione del mio condominio, ho il diritto di
protestare e richiedere un’assemblea per discuterne. Se invece
nello stesso condominio sono ospite da amici, non mi metto a
spostare i mobili, non critico il menù, non giudico poco
“democratici” i padroni di casa perché non mi hanno interpellato
sulla scelta dei tappeti. Se conosco i loro gusti, e non li
condivido, mi sforzo almeno di rispettarli.
Così come,
recandosi in un paese straniero, è buona norma conoscerne gli
usi ed evitare tutti quei comportamenti che possono essere
ritenuti offensivi dai locali. Se quegli usi non ci piacciono,
possiamo andare altrove.
Se ognuno
rispettasse le regole consolidate di una Casa, di una Società,
di una Cultura, chiedendo ovviamente la reciprocità, forse ci
sarebbero meno difficoltà nei processi di Accoglienza,
Tolleranza, Integrazione, paroloni che rimandano a temi
complessi che mi limito a sfiorare, giusto per ricordare che
piccoli comportamenti individuali possono provocare grandi
cambiamenti sociali, come la famosa farfalla della Teoria
della Complessità (Ilya Prigogine).
Non si
tratta di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Si tratta
di dare la precedenza, in caso di posizioni inconciliabili, al
padrone di casa. Sarebbe una regoletta in fondo semplice
semplice, capace, se seguita, di evitare tanti inutili conflitti
e ridurre l’ostilità, all’interno delle famiglie, così come in
qualsiasi altro “sistema” sociale.
(Maggio 2012)
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