MisteriosaMente......

Conoscere la mente......

      

 

 

 

             Libertà  e  Rispetto


 

Ho deciso di dedicare una pagina ai due temi che da sempre mi stanno più a cuore:

la Libertà e il Rispetto, convinta che non possano che coesistere,

 in delicato equilibrio tra loro.

 

Perciò ho riunito in questa pagina tutti gli articoli che, nel corso di oltre 10 anni, ho dedicato a questi argomenti, cercando in ogni riga, in ogni parola, di esercitare

sia la Libertà delle mie idee, che il Rispetto per quelle degli altri.

Spero di esserci riuscita, ma… si può sempre migliorare.

 

 

Il Telegiornale

 

Il telegiornale che preferisco, quello più equilibrato, quello più neutrale… è il mio!

No, purtroppo non possiedo televisioni, non sono un direttore di giornale, non sono neppure una giornalista. Ma io il mio telegiornale riesco a farmelo lo stesso. E ognuno di voi può fare altrettanto. Come? Come in un gioco, un puzzle, un collage, una partita a scacchi…

Prendiamo una notizia qualsiasi. Il politico Pippo fa un comizio, tocca gli argomenti A B C D. Viene applaudito per gli argomenti A e B e viene fischiato per gli argomenti C e D.

La sera il TG-101 riferisce che il comizio è stato un successo, che c’erano 300 mila persone, che il clima era di festa, e mostra le immagini in cui la gente sventola le bandiere e applaude per gli argomenti A e B.

Passiamo ora al TG-102: dice che il comizio è stato un fiasco, che i partecipanti erano sì e no 50 mila, che il clima era tutt’altro che pacifico. Le immagini mostrano la gente che urla slogan violenti, che fa gesti non proprio di gioioso entusiasmo, e che fischia gli interventi sugli argomenti C e D.

Se si resiste a guardare i TG 103, 104, 105, 106, ecc., si potrà fare un collage di tutte le informazioni, si potrà cercare di scartare gli eccessi in un senso e nell’altro, nonché di escludere mentalmente le opinioni dei vari giornalisti, inviati, corrispondenti, ospiti in studio, e forse… dico forse… si potrà avere un’idea di quello che realmente è successo.

Naturalmente ci vogliono alcuni pre-requisiti essenziali: non essere parenti di Pippo, non essere militanti di questa o quella corrente politica che sostiene i singoli TG, non dovere riconoscenza a chicchessia per aver ottenuto un posto di lavoro, una casa, una pensione di (incerta) invalidità, o qualsiasi altro privilegio, da nessuna delle forze in gioco, essere onesti con sé stessi, ed avere del tempo a disposizione.

Dati tutti questi requisiti, ci si può allenare – non è facile - a scoprire un po’ di verità, condita da obiettività q.b., nella marea di notizie che ci sommergono ogni giorno. Niente paura, non sto suggerendo di passare la vita a guardare tutti i TG, - spero che abbiate di meglio da fare - basta farlo una volta ogni tanto, quando un avvenimento ci interessa particolarmente, e ci interessa veramente capirne tutti gli aspetti.

Lo stesso discorso, va da sé, vale per la carta stampata (perché non comprare 3 o 4 giornali diversi, ad esempio una volta al mese?), o per i libri, siano essi testi scolastici, o divulgativi, o saggi, o premiati best-seller di moda.

Un altro elemento utile è approfondire le fonti: chi ha fornito i dati, l’attendibilità dei dati stessi, la loro reperibilità, chi parla (o scrive), la sua storia, la sua preparazione, e perché no? la sua reputazione (o è una parola passata di moda?). E’ ad esempio importante che i commenti vengano esplicitamente accompagnati da informazioni controllabili sulle fonti, o viceversa dalla frase “è mia opinione che …”. E’ ovvio che se la dimostrazione di una qualsiasi tesi, si basa su un presupposto approssimativo, o errato, o addirittura falso, tutto il discorso viene a cadere, per quanto logico e razionale sembri il ragionamento.

Quando si diventa esperti in questo gioco, non sarà difficile scoprire quante volte si afferma qualcosa, per poi inventare il presupposto da cui l’affermazione dovrebbe invece scaturire. Io non posso dire: “Pluto ha detto che la luna è quadrata, quindi Pluto è un bugiardo”. Devo prima dimostrare che Pluto abbia detto che la luna è quadrata. Eppure, se si impara a farci caso, ci si accorgerà di quante persone affermano, convinte, qualcosa, senza sentirsi in dovere di dimostrare nulla, credendo – o volendo far credere - che una cosa sia vera solo per averla affermata.Infine non guasta ogni tanto chiedersi: “cui prodest?” Il vecchio detto latino ci invita a domandarci chi trae vantaggio da un’affermazione o da un’azione. Essendo io piuttosto scettica sulle tendenze altruistiche dell’essere umano, e non scandalizzandomi del fatto che ognuno cerchi di trarre qualcosa di buono per sé, preferisco chiedermi: quale è il vantaggio che questa persona si aspetta? E’ un vantaggio lecito, accettabile, che può portare vantaggi anche ad altri? O è un fine meschino, esclusivamente egoistico, abietto o dannoso per altri?

Insomma, dando per scontato che l’obiettività non esiste, e che il giudizio di ciascuno è sempre – più o meno – influenzato da mille e uno fattori, l’unica cosa da fare è… ricordarsene e tenerlo sempre presente: forse è solo questa la chiave per un maggiore reciproco rispetto.

   (Ottobre 2002)

 

“Pubblico”?

 

Il  9 settembre 1998 ci lasciava Lucio Battisti.

In agosto ero stata all’estero. Prima di partire, radio e televisione propinavano tre bollettini medici al giorno sulle condizioni di salute di Alberto Castagna. I quotidiani riportavano coscienziosamente tali bollettini, nonché opinioni, commenti, resoconti di medici, parenti, amici, colleghi di lavoro. Tornata dal mio viaggio, passarono settimane prima di sentire di nuovo parlare di Castagna.

Naturalmente questo è solo un esempio: ciò accade per i più svariati argomenti, e a volte, da un giorno all’altro. Mi chiedo perché, dopo un’overdose di notizie su un certo tema, come per un misterioso contrordine, non si sa più come le cose stiano procedendo o come si siano concluse. Mi piacerebbe essere smentita, ma ho l’impressione che per alcuni giornalisti – sempre pronti a sbandierare il loro diritto-dovere all’informazione – in realtà l’informazione sia l’ultimo degli scopi.

Prendiamo il “caso” Battisti. Forse secondo certi giornalisti avrebbe dovuto prendere il posto del “caso” Castagna. Una succulenta valanga di articoli, interviste, comunicati dell’ultim’ora… Sempre per questi giornalisti (ma il discorso è ugualmente valido per alcuni fotografi), frustrati e delusi per il mancato scoop, un personaggio pubblico ha il dovere di tenere informati i suoi estimatori i quali hanno il diritto di sapere.

Allora io mi pongo alcune domande: cosa vuol dire personaggio “pubblico”? Pensiamo ad un uomo politico: un politico, per sua natura, rappresenta altre persone, in nome e per conto delle quali prende delle decisioni, agisce, lavora: ha appunto un ruolo pubblico. Le persone rappresentate hanno il diritto di sapere se possono contare su questo signore, ovviamente finché questo signore ricopre il suo ruolo pubblico. Se questa persona ha problemi tali per cui non può più tener fede al proprio mandato, in via temporanea o definitiva, è giusto che gli altri ne vengano informati per poter provvedere. (Naturalmente, persino in questo caso, non è assolutamente necessario sapere tutti i particolari).

Veniamo ora al caso di un artista, sia esso un cantante, un attore, un musicista, un pittore. Per quale motivo questo artista è un personaggio "pubblico” ? “Pubblico” significa “ciò che non è privato, che appartiene a tutti”. Un personaggio dunque diventa pubblico perché il suo lavoro si svolge davanti a degli spettatori? Ammettendo che sia così: il personaggio, cioè il cantante o l’attore, può anche essere considerato pubblico nello svolgimento del suo lavoro, ma per quale motivo un cantante o un attore deve essere personaggio 24 ore al giorno, e per tutta la vita? Quand’è che ha il diritto, questo sì sacrosanto, di ridiventare “persona”? Perché questa persona non ha il diritto di fare una passeggiata, di andare al cinema, di sposarsi o divorziare, di ingrassare o di piangere, o di avere l'ernia del disco, senza essere costantemente spiata, assediata, braccata, con il pretesto del diritto di cronaca? E se è vero che il diritto alla privacy è stabilito per legge, non è anche vero che la legge è uguale per tutti? Un artista non rappresenta nessuno, rappresenta solo sé stesso, e, in quanto persona, non appartiene alla collettività. La sua produzione artistica, quella sì, è per gli altri, per chi vuole usufruirne e goderne, persino la sua persona – in senso fisico – è per gli altri, nel momento in cui è la sua persona il veicolo e lo strumento della sua produzione artistica, ma tutto deve finire lì.

Nessun essere umano, insomma, per quanto grande possa essere la sua popolarità, dovrebbe essere definito “pubblico”, nel senso di “appartenente alla collettività”. E’ evidente che il problema nasce quando si confonde il “ruolo” con la “persona” portatrice di quel ruolo.

Un’argomentazione spesso addotta dai paladini del diritto di cronaca ad oltranza è che, non fornendo notizie certe, si dà adito ad un aumento della curiosità morbosa e alla diffusione di notizie inventate (la Pivetti giustificò in questo modo il suo furore presenzialistico in occasione delle sue nozze). Mi viene in mente un episodio della mia giovinezza avvenuto durante un Carnevale: aggredita, insieme ad un’amica, da un gruppo di ragazzini scalmanati armati di famigerati – e dolorosi – manganelli di plastica, mi sentii fare questa proposta: se avessimo consentito loro di darci qualche botta leggera, poi ci avrebbero lasciate in pace ed avremmo evitato le botte pesanti. Addossata ad un muro, cercai inutilmente di far capire a quei mini-energumeni che la strada in cui ci trovavamo non era tra quelle preposte ai pubblici festeggiamenti carnascialeschi, e che il mio diritto di essere lasciata in pace non poteva essere contrattato. Il cervellino acerbo dei manganellatori stava ancora cercando di captare il mio ragionamento quando arrivarono dei poliziotti.

Ho adorato Battisti, ascolto ancora le sue canzoni. Gli sono grata per i momenti bellissimi che mi ha regalato, mi sono dispiaciuta profondamente per la sua malattia e per la sua scomparsa, ma il fatto che la sua musica, la sua voce, siano entrati nella mia vita, non mi autorizza ad entrare nella sua vita, nella sua vita di persona, alla quale si deve lo stesso rispetto dovuto a chiunque altro. E’ legittimo desiderare di saperne di più, non è legittimo pretenderlo.

Allora, cari signori giornalisti: è vero, il vostro lavoro è informare; informare significa riferire dei fatti, e i fatti da riferire, durante la malattia di Battisti erano: Battisti sta male, ma ha chiesto di essere lasciato in pace; la sua famiglia desidera rispettare la sua volontà, amici e conoscenti esprimono la loro preoccupazione ed il loro dispiacere; i medici seguono giustamente il loro codice deontologico. Punto.

Questa è informazione seria e onesta. La curiosità morbosa, da qualunque parte provenga, e per quanti soldi possa fruttare, va ignorata.

"Il pubblico ha un'insaziabile curiosità di conoscere ogni cosa , tranne ciò che vale la pena di conoscere. Il giornalismo, consapevole di tale fenomeno e puttanesco di natura, provvede a soddisfare le sue esigenze. Alcuni secoli fa il popolo inchiodava i cronisti di allora alla gogna, e questo era senza dubbio inelegante; ma al giorno d'oggi i giornalisti inchiodano se stessi deliberatamente al buco della serratura, il che è anche peggio"  (Oscar Wilde)

    (Settembre 2002)

 

Piove governo ladro

Ricordo una volta, molti anni fa, un’anziana signora piuttosto infervorata, che cercò di coinvolgermi, in attesa entrambe davanti al banco di una farmacia, in un’esplosione di giubilo ed entusiasmo, per una vittoria della nazionale di calcio, e si offese - giuro: era proprio “offesa”! - quando dedusse, dalla mia reazione piuttosto tiepida, che il calcio non mi interessava affatto.

Ultimamente questa tendenza ad attribuire arbitrariamente ad altri il proprio pensiero si è diffusa in modo preoccupante, e su argomenti ben più importanti.

Assistevo la scorsa primavera ad un seminario di psichiatria. Il relatore, brillante e colto docente universitario venuto appositamente da un’altra città, all’improvviso, tra un postulato freudiano e una citazione junghiana, si è lanciato in una menata sarcastica e tagliente nei confronti dell’attuale capo del governo. Il tono leggero e divertito non attenuava il senso di quanto andava dicendo. Il pubblico era costituito da persone di varia provenienza, che non si conoscevano tra loro e che probabilmente mai in futuro avrebbero approfondito la reciproca conoscenza. Se per vari motivi si è interessati ad un seminario o ad una conferenza, va da sé che non si è nella disposizione mentale di alzarsi per esprimere la propria opinione in un campo totalmente estraneo al tema trattato, o di protestare andandosene platealmente.

Con le stesse modalità, durante lavori di gruppo in ambito professionale, più volte mi è capitato di assistere alle esternazioni di qualcuno che approfittava dell’occasione per pronunciarsi pesantemente su temi non pertinenti.

Tramite e-mail, mi pervengono regolarmente messaggi molto espliciti, appelli spesso allarmistici, e addirittura raccolte di firme, che non possono che essere definiti propagandistici, da parte di persone appartenenti ad associazioni, comitati, istituzioni di vario genere - che si dichiarano peraltro di tipo “culturale”, “indipendente”, “apolitico” - e con cui sono venuta in contatto esclusivamente per motivi di lavoro.

Ancora peggio quando ciò si verifica in gruppi di amici o conoscenti casuali, in occasione di cene o conversazioni salottiere. In queste circostanze, la buona creanza - per chi ancora la frequenta - imporrebbe di sorvolare e fare buon viso a cattivo gioco. Quando proprio non ci si riesce perché l’aggressione è veramente eccessiva, si può star certi che difendere il proprio o altrui diritto ad avere delle opinioni diverse, non sarà privo di conseguenze.

Il bisogno di condivisione e appartenenza è assolutamente naturale nell’essere umano, e sono ugualmente legittimi l’esigenza e il diritto di esprimere le proprie credenze ed opinioni. Altrettanto naturale e legittimo, e infatti esiste il detto popolare, è prendersela con i governanti di turno e proclamare ad ogni piè sospinto “Piove, governo ladro!” anche mentre la siccità tocca punte da record storico.

Però quello che succede negli ultimi anni, senza che nessuno ne sottolinei la gravità, è che non solo si cestina, certo perché troppo impegnativa, la celebre affermazione di Voltaire riguardo ai suoi avversari «Non sono d’accordo con quel che dicono, ma mi batterò fino alla morte perché possano dirlo» (esagerato!). Ma, in nome di una presunta superiorità intellettuale, culturale, morale, si passa, da parte di alcuni, al convincimento che esista una sola unica incontestabile giusta Verità e quindi tutto il resto è anomalia, perversione, e deviazione dalla norma (alla quale è necessario tornare rapidamente con tutti i mezzi possibili), al punto tale che ci si rifiuta di ammettere che “il resto” esista e che abbia pari diritto di espressione.

Questa pericolosa “tendenza” può essere ricondotta alla sottintesa seguente convinzione: per essere una brava persona, rispettabile e moralmente degna, devi essere come me, condividere le mie idee e le mie passioni, sanzionare insieme a me tutto quello che non rientra nel mio modo di pensare. E poiché il mio modo di pensare è l’unico possibile, l’unico Buono e Giusto, non posso che dare per scontato che tu la pensi come me. Per questo non mi chiedo e non ti chiedo neppure come la pensi, è ovvio che non puoi che pensarla come me!

Come?!? non la pensi come me?!? Vergogna vergogna vergogna!

Come l’episodio della tifosa dimostra, non è uno specifico argomento che fa scattare questo meccanismo, ma certamente l’argomento “politica” è quello che più facilmente accade di veder tracimare dai confini che dovrebbero delimitare una tranquilla chiacchierata tra amici, o una conferenza accademica, o una riunione di lavoro o di studio.

Tutto ciò accade in un paese dove il voto è “segreto” e dove parlare di politica è quasi un tabù (o forse accade proprio per questo...?)

E allora può capitare di vedere la propaganda infiltrarsi come un blob nei luoghi e nei momenti meno opportuni, di ascoltare stoccate velenose lanciate come per caso, quando ci si trova nell’impossibilità di replicare, di dover subire la prepotenza di chi approfitta senza imbarazzo di qualsiasi occasione pubblica o privata destinata ad “altro”, che non prevede cioè una dichiarata finalità di discutere alla pari e confrontarsi apertamente.

E’ naturale che ognuno pensi di avere ragione e non voglio dire che non esistano in assoluto valori e obiettivi condivisi e condivisibili, come ad esempio assicurare a tutti gli esseri viventi la sopravvivenza, la salute, la giustizia, il benessere. Il problema sta nel come. E se esistesse un unico modo infallibile lo si sarebbe già trovato.

Allora va bene discutere su questo “come”, va bene azzuffarsi per dimostrare agli altri che le loro ragioni sono totalmente sbagliate, va bene anche divulgare e promuovere le proprie idee e convinzioni, ma attenzione: non va bene decidere che qualcuno è moralmente migliore o peggiore di qualcun altro in virtù o per colpa delle idee e convinzioni che ha.

Tutti abbiamo il diritto di esprimerci, ma a nessuno è stato dato il diritto di giudicare, prevaricando o escludendo illegittimamente a priori la ragione altrui, l’altrui pensiero.

 

   (Ottobre 2003)

 

"Per discutere davvero si deve prima aver accettato

la possibilità di avere torto"

(Sartre, 1948)

 

Spesso mi domando perché non si riesca a parlare di politica, nemmeno tra amici, tra persone cioè che presumibilmente si apprezzano e si stimano. Discutere e confrontare le proprie idee è qualcosa che esige il rispetto reciproco, altrimenti è inevitabile, laddove le idee non coincidano, lo scontro, anche feroce e talvolta devastante. In ogni caso, inutile.

Ogni volta che assisto, o partecipo, ad una discussione politica – ammesso che discussione sia la parola giusta per pochi, allusivi e sarcastici scambi di battute – resto sorpresa dagli atteggiamenti del tutto inusitati che assumono persone le quali su qualsiasi altro argomento generalmente mantengono serenità, coerenza, e soprattutto lucidità. Cos’è che improvvisamente rende queste persone indistinguibili dagli scalmanati ultra-tifosi di calcio, categoria umana tra le più ottuse e irrazionali?

Pensiamo ad un qualunque Sig. Rossi, ragionevole, intelligente e pratico; mettiamo che gli serva un dentista, o un arredatore, o un idraulico, o un avvocato. Si informa da conoscenti e amici, cerca di capire se si tratta di una persona seria, se è preparata, onesta, se è degna di fiducia. A questo punto si affida a questa persona, rimanendo comunque vigile sul suo operato e sul suo comportamento. Se comportamento ed operato non sono soddisfacenti, il Sig. Rossi si cerca un altro dentista, un altro idraulico, un altro avvocato.

Lo stesso Sig. Rossi ha cominciato a votare, per tradizione familiare, o contestando la tradizione familiare, per il partito PX, che rispecchia i valori in cui crede, che presenta un programma condivisibile, che comprende nelle sue liste persone che presume serie e affidabili. E qui comincia il comportamento inusuale. Legge solo giornali col marchio PX, ascolta solo i discorsi, i comizi e gli interventi radiotelevisivi degli esponenti del PX. Contemporaneamente, evita come la peste qualsiasi voce discordante, accogliendo con disprezzo e strafottenza osservazioni o commenti non allineati persino se provenienti da amici di cui in genere ha stima e rispetto, invece di servirsi delle voci diverse proprio per operare quella critica e quella vigilanza che si riserva a chiunque stia facendo qualcosa in nome e per conto nostro.

Ho provato ad immaginare quale potrebbe essere il presupposto, o quali i presupposti, di questo comportamento. Innanzitutto si dà per scontato che tutti i buoni stanno da una parte, e tutti i cattivi dall’altra. Secondo, è ovvio che i “miei” sono i buoni; quindi, per la serie “o con me o contro di me”, è chiaro che chiunque stia dall’altra parte non può avere assolutamente nulla di positivo. Terzo, i “buoni”, per il semplice fatto che io li ho scelti ed appoggiati, sono sempre e comunque buoni, qualsiasi cosa facciano, e – soprattutto – è assolutamente escluso che stiano cercando di fregarmi. Addetti alla fregatura ci sono già i “cattivi”. Quarto, le promesse ed i programmi sono rispettivamente falsi, inattuabili, demagogici, oppure seri, onesti, realistici, a seconda che sia la parte avversaria, o la mia – quella dei buoni - a recitarli durante le campagne elettorali.

Allora, io chiedo al Sig. Rossi: perché non ti interessa conoscere le motivazioni degli altri? Perché pensi che le tue siano le uniche motivazioni giuste e valide, e non suscettibili di eventuali aggiustamenti o ripensamenti? Non stai forse investendo in una parte politica più di quanto ad essa si possa ragionevolmente chiedere?

Che cos’è la "politica"? Secondo lo Zingarelli 2000 è la “scienza e arte di governare lo Stato”. Né più né meno. Quindi, siccome non possiamo tutti governare lo Stato, si eleggono delle persone che ci rappresentino, che rappresentino i nostri interessi, o magari, gli interessi che ci stanno a cuore, se pure non sono i nostri.

Certo se la fedeltà ad un partito funziona sul modello de “la Roma è 'na fede”, tutto si spiega... Ma il calcio, ammesso che qualcuno se lo ricordi ancora, è un gioco. Oppure no?

    (Gennaio 2004)

 

 Vuoi più bene a mamma o a papà?

Un pericoloso equivoco per cui alcuni pensano - pur non osando confessarlo - che la pedofilia, se non c’è costrizione, non è poi così grave, si basa sulla convinzione che il bambino spesso è “d’accordo”. Il problema è che si può insegnare ai bambini ad essere d’accordo. Non è necessario costringerli. E la pedofilia non è l’unico tragico sbocco di tale possibilità.

Ad un bambino si può insegnare cosa è giusto e cosa non lo è, cosa è buono e cosa non lo è, gli si può insegnare ad uccidere, a pregare, a prostituirsi, a rubare, a sacrificarsi, ad amare e a odiare.

Il bambino non può scegliere. Da quando un piccolo nasce, è biologicamente predisposto a fidarsi di coloro che lo accudiscono: se non lo facesse, morirebbe. Morirebbe di paura all’avvicinarsi di un adulto, o di fame perché rifiuterebbe di mangiare.

I bambini di certi paesi vengono trasformati in soldati spietati; milioni di bambine subiscono senza ribellarsi mutilazioni terribili perché sono le loro mamme e le loro nonne a volerlo; altri vengono indottrinati ed indotti con tecniche più o meno raffinate ad accettare una religione o un’ideologia, ad adottare convinzioni e comportamenti violenti, razzisti, sessisti. A considerare giusto e “normale” quanto di più efferato è capace di produrre una mente umana.

Ma come è possibile trasformare una creatura innocente in un piccolo mostro o in una vittima consenziente? E’ facilissimo, basta non darle scelta. Basta proporle un’unica strada, un’unica indiscutibile Verità.

Certo, esiste per fortuna il lato positivo della medaglia: è per questa innata disponibilità ad apprendere, che è possibile insegnare ai bambini la Bellezza, la Generosità, la Libertà, il Coraggio. E la capacità di scegliere. Ed ecco l’immensa responsabilità degli adulti: di tutti gli adulti nei confronti di tutti i bambini, non solo dei genitori nei confronti dei propri figli.

Si parla tanto di tolleranza, di giustizia, di democrazia, di rispetto, di pace... Splendide parole. Ma dovremmo tutti ricordarci più spesso che le parole hanno un’influenza minima sui piccoli, rispetto all’enorme valore che ha l’esempio.

E non può esistere tolleranza, giustizia, rispetto, se non si è capaci di proporre ai bambini, insieme alle nostre verità, anche quelle degli altri; se non proprio con entusiasmo, almeno con altrettanta onestà e limpidezza.

Questo è un vero assoluto diritto dei bambini: avere un quadro della realtà il più possibile completo, affinché sia loro possibile scegliere.

So bene di dire qualcosa di molto impopolare, ma sono convinta che l’ora di religione dovrebbe spiegare i princìpi di tutte le religioni, e anche dell’ateismo; che la politica andrebbe insegnata cominciando dalla sua storia: dove, quando e come ideologie, partiti e movimenti sono nati, dove quando e come si sono sviluppati, quali gli aspetti positivi e quali i risvolti negativi nella loro applicazione pratica. Bisognerebbe insegnare, a casa e a scuola fin dalle prime classi, a sviluppare il senso critico, e prima di questo, la capacità di reperire informazioni, attingendo da più fonti. A controllare personalmente le fonti, che siano esse istituzioni, o giornali, o leggi; l’attendibilità, la formazione e la storia di vita se si tratta di persone. Senza pregiudizi, senza manipolazioni, senza omissioni.

Utopia? Forse. Eppure non sarebbe necessario rinunciare alle proprie idee, rinunciare a perorarle, anche con energia e passione; sarebbe sufficiente non negare, stravolgere o demonizzare le idee altrui. Bisognerebbe avere l’onestà di esporle per come realmente sono e il coraggio di tollerare da parte di un figlio una scelta che non condividiamo.

E’ vero che nel nostro paese non si mandano i bambini in piazza con i kalashnikov come ci siamo tristemente abituati a vedere in tv, e qui da noi l’infanzia sembra essere un mondo dorato, ovattato e ultraprotetto; eppure quante piccole grandi violenze anche nei confronti dei nostri bambini!

Negli anni della mia infanzia, si raccomandava sempre ai bambini di rispondere, alla fatale domanda: “vuoi più bene a mamma o a papà?”, con l’ipocrita frase: “a tutti e due”. E nessuno si poneva mai il dubbio di quanto quella frase potesse essere angosciante per un bimbo. Gli si faceva una domanda chiedendogli di essere sincero, ma gli si era già impartita la risposta oggi diremmo politically correct; quindi se rispondeva “tutti e due”, aveva l’impressione di aver mentito. Se rispondeva “mamma” oppure “papà”, si sentiva in colpa sia per aver trasgredito una regola, sia nei confronti del genitore non prescelto. Colpa che gli adulti contribuivano ad alimentare, cercando di convincerlo dell’errore... di aver detto la verità.

Oggi non va molto meglio. Si chiede ai bambini di esprimere liberamente quello che realmente pensano, ma non si danno loro gli strumenti per pensare con la propria testa, non si forniscono loro fonti di informazione diversificate e alla loro portata; non li si educa all’idea che possono esistere molti differenti punti di vista sullo stesso argomento; li si coinvolge però in problematiche e condotte che non sono assolutamente in grado di comprendere.

Prendiamo un esempio recente: la manifestazione contro la riforma della scuola. Una manifestazione, come è noto, indetta da rappresentanti esclusivamente di una parte politica. Senza entrare nel merito dei motivi, e tralasciando il problema non secondario dell’esibizione di minori, guardiamo al semplice avvenimento. Si sono visti bambini delle elementari, mescolati a insegnanti, genitori, politici, sindaci e sindacalisti, ripetere slogan ed esibire cartelli e striscioni. Cartelli ideati da loro? Slogan inventati da loro?  Naturalmente no.  Perché potessero farlo, ci sarebbe dovuto essere un gigantesco impegno a monte: ad esempio la lettura in classe di tutta la legge 53, l’interpretazione e la discussione critica della stessa. L’esame approfondito di ogni articolo e il confronto con la legge precedente, ovviamente con l’aiuto di commentatori pro e contro (il pluralismo, questo sconosciuto!). Il tutto tradotto in termini comprensibili a bambini così piccoli. Niente di tutto questo: troppo complicato, faticoso, difficile, praticamente impossibile.

Ma è sbagliato credere che tutto ciò non abbia insegnato nulla ai bambini: ha insegnato che è ammissibile la superficialità e la manipolazione, che è legittima la protesta a base di insulti e disprezzo, che la nostra verità è l’unica possibile e chiunque non la pensi così deve essere ostracizzato; a cominciare magari dal compagno di classe i cui genitori non erano in corteo perché sono dell’altra parte politica, oppure semplicemente perché trovano la legge attuale migliore della precedente.

Hanno anche imparato che il nostro è un paese dove la libertà “è in pericolo”, ma in cui si può mettere in atto qualsiasi forma di protesta, anche aggressiva e sprezzante, nei confronti di chi è stato eletto democraticamente e - scandalo! - si permette di governare. Cosa potranno mai pensare questi bambini dei milioni di loro connazionali che non la pensano come mamma e papà?

E anche un’altra cosa hanno imparato: che non è necessario conoscere e capire per poter scegliere. Tanto ci sarà sempre qualcuno pronto a suggerire, senza la seccatura di dover dimostrare nulla, cosa bisogna dire, cosa bisogna pensare, da quale parte è l’unica, certa, indiscutibile Verità.

  (Gennaio 2004)

 

 

L’Autenticità

 

Una gentile amica mi ha posto delle domande sull’Autenticità, tema stranamente di moda, in un’epoca in cui le apparenze sono ritenute  ben più importanti della sostanza.

 

 - Cos'è l'autenticità?

Ho l’abitudine di iniziare le mie riflessioni su qualunque tema, partendo dal significato più letterale dei termini. Il dizionario di lingua italiana, su ciò che è autentico (dal greco authenticòs: che è fatto da sé) recita “che proviene con certezza da chi ne è indicato quale autore”.

In realtà essere autentici è esattamente questo, né più né meno: se penso o dico qualcosa; se esprimo una convinzione o un’emozione; se mi comporto in un determinato modo, ebbene sono autentico quando quella convinzione, o emozione, o comportamento proviene proprio da me, è frutto delle mie esperienze e del mio ragionamento, e non di suggerimenti o imposizioni provenienti dall’esterno.

 

 - Quindi cosa vuol dire essere autentici?

Forse la definizione più semplice è “essere se stessi”. Ma per essere se stessi, bisogna sapere chi si è realmente, bisogna conoscersi. Quando e se ci si conosce, allora si è in grado di essere autentici innanzitutto con se stessi. Manifestarsi o no agli altri è un problema secondario, o un falso problema.

Come si può imparare a conoscersi? Ad esempio cercando di osservarsi come dal di fuori ed interrogandosi su quelle che pensiamo siano le nostre convinzioni. Sono veramente le nostre convinzioni? E se improvvisamente non le sentiamo più come nostre, da dove o da chi provengono?

Ma io la penso veramente così?

 

 - L'autenticità può rendere vulnerabili?

Si è più o meno vulnerabili per tanti motivi. In generale, tanto più ci si sente sicuri di sé e saldi e forti sia nelle certezze acquisite che nei propri dubbi, tanto più ci si può permettere di esporsi; di esporre anche i propri limiti e le proprie debolezze.

Il rischio, molto probabile, è che qualcuno possa approfittarne. L’importante è saperlo e domandarsi se si è in grado di tollerare un eventuale “attacco” poco amichevole: se non ci si sente abbastanza forti, è saggio esporsi di meno, ma è essenziale chiedersene il perché.

 

 - Si può “imparare” ad essere autentici?

Ho sempre amato quella famosa poesia di Kipling “If”, un vero e proprio manuale per imparare ad essere Uomo (o, naturalmente, Donna), nel senso pieno del termine.

Proviamo a chiederci:

Quanto conta per me il giudizio altrui?

La mia sicurezza davvero dipende da ciò che gli altri pensano di me?

Quanto spesso mi adeguo a ciò che gli altri si aspettano da me?

Quanto di me sono disposto a sacrificare pur di piacere agli altri?

Riesco a mettere in discussione luoghi comuni, mode e tendenze, senza sentirmi “out”?

 

 - Fino a che punto si può essere autentici con gli altri?

Non è obbligatorio, ma certamente si può se... si vuole.

Dipende da molti fattori: per esempio dal grado di confidenza e di intimità che si ha con una determinata persona; solo una conoscenza non superficiale ci consente di prevedere con ragionevole approssimazione se e quanto quella persona potrebbe approfittarne.

E comunque non ridurrei il problema alla scelta tra essere autentici o essere falsi. Chi ha stabilito che si debba per forza esternare tutto quello che pensiamo? Intanto non è detto che agli altri interessi, e comunque ci si può esprimere moderatamente, senza per questo mentire o essere falsi.

Trovare il punto di equilibrio è sempre la cosa più difficile: il punto di equilibrio tra il legittimo (ma non obbligatorio) desiderio di esprimersi per quello che realmente si è, la necessità di doversi difendere in una società - la nostra - (che nonostante i continui solenni proclami sul valore della comprensione e della tolleranza non è certo molto tenera), e il rispetto delle regole sociali.

Un buon modo per misurare la nostra “intelligenza sociale” è quello di osservare, oltre che noi stessi, anche le reazioni degli altri. Ad esempio, se, la maggior parte delle volte che interagiamo con gli altri, provochiamo reazioni stizzite, o aggressive, o di malcelato fastidio, domandiamoci il perché; cosa può esserci nel nostro comportamento che irrita gli altri? Forse abbiamo un’eccessiva tendenza a distribuire agli altri opinioni e saggi consigli non richiesti; forse reagiamo con eccessiva veemenza quando sono gli altri a cercare di imporci opinioni e consigli. Una volta scoperto il motivo, potremmo anche decidere di continuare ...ad irritarli, ma almeno sarà una decisione consapevole, no?

Oppure, con spirito ed autoironia potremmo rendere accettabile un nostro difetto dichiarandolo in anticipo. Per esempio: scusatemi, io sono un logorroico: se parlo troppo, per favore interrompetemi!

Il senso della misura e soprattutto, so di ripetermi, la conoscenza di sé stessi - pregi, difetti, limiti - e un’onesta sincera autocritica possono aiutare.

In fondo essere autenticamente se stessi è, molto semplicemente, una questione di libertà, libertà che - come tutti sappiamo - dovrebbe avere come unico limite il rispetto per gli altri, per le regole della convivenza civile e per le leggi che una determinata società si è data e condivide.

 

 - Essere troppo sinceri, come quando onestamente si riconosce un errore, come già detto, può indurre gli altri ad approfittarne. Che fare?

Se siamo sicuri di agire nel modo giusto, non dovremmo preoccuparci della reazione altrui.

Se penso di dovermi scusare, credo che il modo migliore sia il più semplice: “chiedo scusa, mi rendo conto che ho sbagliato ad agire così”. Non è necessario spiegare il perché e il percome. Questo riguarda solo noi, affinché anche un errore diventi un’esperienza costruttiva.

 

 - Giustificarsi riconoscendo un errore per scaricarsi la coscienza è da considerare autenticità o viltà?

Credo che viltà sia il contrario di coraggio, e non di autenticità. Anche se indubbiamente a volte, per essere autentici ci vuole coraggio! Ma potrebbe volerci coraggio anche per rinunciare alla propria autenticità, se le circostanze lo richiedono.

Venendo all’esempio, direi che quando si è sinceramente disposti ad ammettere un errore, o a chiedere scusa, non dovrebbe essere necessario giustificarsi.

Se ci si pensa bene, giustificarsi in realtà equivale a non ammettere l’ errore, a non chiedere scusa. Se io penso di avere delle giustificazioni al mio operato, questo vuol dire che non ho sbagliato e quindi non devo chiedere scusa.

 

 - Quando non siamo d’accordo con qualcuno, è meglio tacere rinunciando ad essere autentici e rischiando di sembrare deboli, o dobbiamo esprimerci sempre e comunque? E’ utile l’arma dell’ironia?

Un ottimo intelligente sistema per non scatenare l’aggressività altrui è iniziare il discorso in modo conciliante:  “Sono d’accordo, ma forse andrebbe anche considerato che ...” In quanto al sembrare (o sentirsi?) deboli, dipende dalla forza degli argomenti che abbiamo a sostegno del nostro punto di vista.

L’ironia infine è un’arma eccezionale, ma come tutte le armi deve essere usata con cautela e prudenza, perché può anche ferire. Il nostro interlocutore può sentirsi preso in giro, oppure è permaloso, oppure l’argomento per qualche motivo lo tocca più di quanto appaia. Nel dubbio, a volte è meglio non raccogliere, oppure interessarsi alle motivazioni altrui con semplici domande e con disponibilità ad ascoltare le risposte: “Come mai dici questo?”

Se l’altro poi non vi chiede come la pensate voi… non è essenziale dirglielo. Oppure vi sembra indispensabile?

 

(Marzo2004) 

 

 

Libertà obbligatoria, opinioni e civiltà

 

In una trasmissione televisiva di successo in cui si insegna a diventare famosi, ho assistito ad un incredibile dialogo: ad Aldo Busi che, a proposito di un tema assegnato ai ragazzi, diceva ad uno di essi “Tu sei andato fuori traccia”, uno sbarbatello ventenne teneramente ignorante rispondeva “Io non le permetto...”. Aldo Busi, che può piacere o non piacere, ma è indubbio che sia un grande scrittore, replicava esterrefatto “Sono io che non ti permetto; qui sono io il maestro e tu sei l’allievo. Potremmo discuterne, ma alla fine io decido, non tu, se sei fuori traccia”.

In un’altra trasmissione, dove un vero giudice emette sentenze in un finto tribunale, il pubblico manifesta la propria “opinione” su chi ha torto e chi ha ragione dei contendenti, spesso criticando le decisioni del giudice, senza mai minimamente preoccuparsi di ciò che dice la legge in proposito. Nella bizzarra ma diffusa convinzione che un giudice emetta un verdetto non applicando la legge e utilizzando la giurisprudenza, ma decidendo autonomamente ciò che per lui è “giusto”, esprimendo cioè nulla di più che un’opinione.

Frequentemente capita di sentire subrettine, grandi fratelli, figuranti di finto pubblico, il cui unico mestiere nella vita consiste nel mettere insieme gettoni di presenza come comparse, tacitare con arrogante determinazione esperti di ogni genere - gente che ha dedicato la vita a studiare faticosamente la propria materia - usando come passe-partout frasi come: questo è un paese libero, c’è la democrazia, se non sono d’accordo ho il diritto di dirlo... Ma la più raccapricciante di queste frasi è: è una mia opinione!

Mi sono riferita a trasmissioni televisive perché la TV, oltre che essere una rappresentazione della realtà, è una realtà che tutti conosciamo. Ma lo stesso meccanismo può riprodursi con le stesse modalità in ogni altra situazione. Una volta ho raccolto lo sfogo di una signora: era molto arrabbiata con i chirurghi che avevano avuto l’ardire di intubarla durante un intervento, avendole anche fatto un’anestesia endovena. E’ stato inutile spiegarle - da medico - che le due tecniche avevano finalità diverse: Io resto della mia opinione.

Come è stato inutile spiegare ad un altro signore che la sua cardiopatia, pur contenendo nel nome la radice “reuma”, non era stata causata dall’umidità presa al mare.

Cos’hanno in comune questi episodi, a cui se ne potrebbero aggiungere quotidianamente decine e decine?

Riassumerei il fenomeno in tre convinzioni:

1.      che tutto sia “opinione” e che tutte le opinioni si equivalgano

2.      che c’è la “libertà”

3.      che siamo tutti “uguali”

 

    Punto primo. L’opinione, ovvero “idea, giudizio, o convincimento soggettivo” (Zingarelli 2002), è un’opinione in quanto è appunto soggettiva. Riguarda cioè un argomento che non è oggetto di studi e ricerche i cui risultati sono tanto meno soggettivi, quanto più, in modo indirettamente proporzionale, sono da ritenersi oggettivi. Faccio un esempio: ognuno di noi può avere un’opinione sul fatto che in un qualunque altro pianeta del sistema solare esistano esseri viventi simili a noi. Al momento attuale, nessuno, neppure gli astronomi, possono dire una parola risolutiva su questo tema.

Viceversa, se io immagino che la distanza dalla terra alla luna possa essere di 300 km, ed un astronomo asserisce che essa oscilla tra 363.296 e 405.503 Km, io sto esprimendo un’opinione, lui no. In realtà, su alcuni argomenti, laddove la soggettività non ha motivo di essere considerata, le opinioni non dovrebbero neppure esistere.

    Punto secondo. La libertà: splendida parola carica di nobili significati, ma anche di curiosi equivoci. Ad esempio: se è vero che ho la libertà di pensare ciò che voglio, e che avrei anche il diritto di esprimerlo, non è scritto da nessuna parte che io abbia l’obbligo di farlo! Forse dovrei di volta in volta considerarne l’opportunità valutando la circostanza, l’ambiente, il momento. Quand’ero piccola, mi dicevano: se pure pensi che una persona è brutta o antipatica, non è necessario dirglielo. Oggi si crede che non dire sempre, a tutti i costi, in tutte le occasioni, ciò che si pensa, sia una mancanza di spontaneità (!), o addirittura un’ipocrisia. Ma siamo sicuri che sia veramente così? Eppure questa è la stessa epoca in cui si sono introdotti termini come nonvedente, nonudente, diversamente abile, per evitare di essere troppo espliciti. Questo cosa significa? Che si sta attuando un nuovo genere di discriminazione ritenendo lecito scaricare tutta la propria frustrazione e aggressività purché la vittima sia vedente, udente, e normalmente abile?

    Terzo punto. Siamo tutti uguali. Mi chiedo: la gazzella è uguale al leone? Un bambino di un villaggio ruandese è uguale ad un bambino di Helsinki? Er Piotta è uguale a Beethoven? Certo, sono rispettivamente animali, bambini, uomini...

Che vuol dire essere uguali? Ogni essere vivente, animale o vegetale, ogni pietra e ogni goccia d’acqua, ogni attimo del tempo e ogni millimetro dello spazio, tutto ciò che è conosciuto e conoscibile è unico, e quindi diverso. Come dice Michel de Montaigne “la qualità più universale è la diversità”. In altri termini, non c’è nulla di più artificiale dell’uguaglianza.

Eppure l’uguaglianza è un Valore: lo sappiamo tutti. Egalité! proclamava la rivoluzione francese. Ma anche su questo concetto, come su quello di Libertà, si è instaurato un colossale equivoco. L’Uguaglianza è un valore quando esprime un principio, sociale, politico, morale. Principio e aspirazione ideale che si riferisce all’uguaglianza dei diritti, all’uguaglianza davanti alla legge, all’uguaglianza rispetto alle opportunità di sopravvivenza e di qualità della vita.

Ma a parte ciò, l’uguaglianza, come dato di realtà, semplicemente non esiste.

Allo stesso modo non esiste, in nessuna società, l’uguaglianza dei ruoli: un docente non è uguale ad uno studente, uno scienziato non è uguale ad un artigiano, un genitore non è uguale al figlio, un artista non è uguale ad un informatico. Alcuni ruoli poi implicano necessariamente una gerarchia, anche se talvolta relativa e limitata ad un determinato contesto.

Tornando alla trasmissione di cui parlavo all’inizio, il pubblico è autorizzato (anzi direi che viene istigato) ad esprimere liberamente il proprio pensiero. Non sono così ingenua da non pensare che certi personaggi siano selezionati e incaricati dagli autori per solleticare quello che io chiamo l’istinto del colosseo, ma è palese che in ogni personaggio c’è un ampio margine di contributo personale. Ad esempio una signora, insegnante o ex insegnante, è autenticamente severa e bacchetta a destra e a manca, intervenendo con pesanti critiche e perentori commenti sulla personalità dei ragazzi, con un intento “pedagogico-formativo” da evidente deformazione professionale. Atteggiamento che, se è logico e naturale (senza entrare nel merito dei contenuti) all’interno di una scuola, in quella sede appare decisamente moralistico, invadente, fuori luogo. Per non parlare delle esternazioni di certi petulanti paladini della libertà d’espressione, in nome della quale attuano un patetico tiro a segno, usando come bersagli gli indisciplinati ragazzi, a loro volta “liberi pensatori”, ma ricchi almeno del loro talento.

Sorprendentemente - ma in fondo quanti si sorprendono? - alcuni di questi allievi da un lato non si privano del piacere di contestare apertamente gli insegnanti, dimenticando con tignosa incoscienza il proprio ruolo di studenti, cioè il motivo stesso della loro presenza in quel luogo, e dall’altro accettano critiche feroci e giudizi senza appello da parte di spettatori incompetenti e biliosi, sia sulle loro capacità artistiche sia sulle caratteristiche della loro personalità. Come se fosse la cosa più naturale del mondo!

In ottemperanza appunto alle tre regolette di cui sopra: tutto è “opinione”,  c’è la “libertà”,  siamo tutti “uguali”.

La civiltà di un paese innegabilmente si misura, tra l’altro, dal grado di libertà di espressione della sua popolazione.

Forse ci si dovrebbe ricordare che si misura anche dalla capacità di non abusarne.

   (Aprile 2004)

 

 

"Non giudicar la nave stando in terra"

(Proverbio)  

 

Durante i giorni tristi dello tsunami nel sud-est asiatico, molti furono gli episodi portati alla ribalta dai mass media. Alcuni passarono quasi inosservati, compresi piccoli e grandi atti di eroismo, altri furono più seguiti, più commentati. In genere gli avvenimenti più sfruttati in interviste e sondaggi sono quelli in cui è più facile immedesimarsi e, come è logico, le influenze culturali non sono marginali.  E cosa fa più impressione da noi di qualcosa che investa il debordante istinto materno delle mamme italiane?

Mi riferisco all’episodio in cui una giovane donna, travolta dall’onda anomala, fu costretta a scegliere quale dei suoi due bambini tenere stretto a sé, e quale lasciare andare al proprio destino.

Con grandissima lucidità, con quella sovrumana forza della mente e del cuore che si manifesta solo in circostanze drammatiche, la madre scelse di tenere il più piccolo, quello che certamente non avrebbe potuto farcela da solo. Lasciò andare il più grande, nella speranza che riuscisse a cavarsela con le sue forze. I fatti le diedero ragione, perché il bambino più grande riuscì a resistere finché qualcuno lo aiutò a mettersi in salvo.

Ebbene, in quei giorni ho sentito una valanga di critiche rivolte a questa madre: ma come aveva potuto scegliere tra i due? come aveva potuto lasciare andare un figlio verso una morte quasi certa? doveva tenerli tutti e due!

E’ stato inutile cercare di far capire ad alcune di queste persone che se una mano serve ad aggrapparsi, ne resta solo una per trattenere un solo bambino. E che salvarne uno era meglio che perderne due... E che, dei due, solo il più grande aveva qualche possibilità di farcela... E che naturalmente se quella donna avesse potuto fare diversamente, l’avrebbe fatto...

Alla mia domanda: tu che avresti fatto? la risposta continuava ad essere: li avrei tenuti tutti e due. Lasciando quasi intendere che era meglio che morissero tutti e tre.

L’ostinata irragionevolezza di queste reazioni mi ha fatto ripensare ad altre situazioni in cui scelte difficili e dolorose si impongono, a volte a chi è preparato e in qualche misura addestrato ad affrontarle, a volte a chi, casualmente e improvvisamente, viene messo di fronte a decisioni che mai avrebbe pensato di dover prendere. Inevitabilmente, quasi che il riuscire a ragionare in certe circostanze sia segno di colpevole insensibilità, scattano da parte degli spettatori critiche irrazionali e giudizi sommari.  E la domanda: tu che faresti? resta senza risposta.

Molti anni fa lavoravo da poco in ospedale e,  in un reparto di medicina, ho visto un paziente i cui polsi erano assicurati alle sponde del letto con delle garze. Ho subito immaginato un titolo in prima pagina: Ospedale lager! Malato legato al letto!  Si trattava di un signore molto molto anziano, con flebo, ossigeno e vari altri tubicini che sparivano sotto le lenzuola. Alla caposala che si era avvicinata, una suora energica e gentile, ho chiesto perché era legato e lei mi ha risposto che il paziente, affetto da demenza avanzata, appena libero si strappava tutti i tubicini e si buttava giù dal letto. E, anticipando la mia successiva domanda, mi disse: lo so, è triste, ma non possiamo fare altro, ci vorrebbe una persona accanto a lui, per ventiquattro ore al giorno. E qui abbiamo 40 ricoverati. Lei che farebbe?

Immagino che anche ora, leggendo, qualcuno si stia sconvolgendo-indignando-scandalizzando.

A questo qualcuno chiedo: lei che farebbe?  di concretamente fattibile?

Ricordo uno sceneggiato televisivo che raccontava un episodio vero, immagino uno dei tanti: un gruppo di persone in fuga, una madre con il proprio piccolo che piange tra le braccia, il pericolo di essere scoperti e uccisi tutti. Il pianto del bambino soffocato, per sempre.

Quante volte è stato scelto il sacrificio di uno o di pochi per la salvezza di molti? E in quanti abbiamo provato a metterci nei panni e nella testa di chi certe decisioni ha dovuto prenderle e metterle in atto?

Un ultimo esempio, che vuole essere anche un omaggio, da collega, al coraggio di quei medici sconosciuti, di guerra o di pace, di prima linea o di medicina delle catastrofi, che si trovano a dover decidere in pochi secondi chi aiutare e chi lasciar morire. Che, inghiottendo come un veleno i propri sentimenti di pietà, sono costretti a scegliere secondo una fredda razionale terribile ma utile logica, quelli che hanno più probabilità di sopravvivere. Portandosi dentro per sempre certi sguardi, in assoluta solitudine.

Com' è semplice giudicare, quando non tocca a noi! Com' è facile moraleggiare sulle scelte di chi è chiamato a scegliere senza alcuna possibilità di delegare ad altri le proprie responsabilità. Com' è comodo far finta che certe decisioni non siano mai necessarie. 

Com' è rassicurante guardare le navi andar per mare,  stando in terra...

La verità è che non si vuole sentir parlare di queste realtà. Ci mettono di fronte all’imbarazzante evidenza dei nostri limiti, della nostra solitudine nelle scelte davvero difficili, della nostra infinita imperfezione.

       (Marzo 2005)

 

 

"L'eleganza del comportamento è conseguenza di

un sereno dominio delle inclinazioni naturali"

(Giovanni della Casa)

 

Un passaggio importante dalla fase infantile alla fase adulta del ciclo vitale di un essere umano penso sia l’acquisizione delle competenze sociali. Tale passaggio coincide in parte con la fine del fisiologico “egocentrismo” infantile e la graduale presa di coscienza che ogni individuo non è il centro del mondo, ma è parte di un sistema.

Per prepararli all’ingresso nel sistema sociale, una volta ai bambini si insegnava, tra l’altro, il “Galateo”*  che, contrariamente a quanto oggi si crede, non era solo un insieme di regolette inutili e senza senso che sembravano esistere solo per essere trasgredite da adolescenti sanamene ribelli, nonché da adulti sedicenti anticonformisti, e da contestatori per mestiere.

In realtà conteneva anche, e soprattutto, una serie di indicazioni che erano il collante della convivenza civile (dove per civile si intende progredito, evoluto, educato).

Ora è passato di moda, sostituito, a volte, dal più trandy “bon ton” maggiormente seguito peraltro, insieme alle liste di cosa è in e cosa è out, quando suggerisce atteggiamenti esteriori rientranti nel cosiddetto look.

I bambini vengono incoraggiati generalmente ad essere sinceri, a non avere segreti, ad essere spontanei: tutto questo è dovuto per lo più ad una necessità di controllo – altresì comprensibile - da parte dei genitori. Ma ad un certo momento il bambino capisce che non sempre si può essere del tutto spontanei e sinceri fino in fondo, pena le reazioni scandalizzate o stizzite degli adulti. E a quel punto viene lasciato solo: ignorando allegramente l'aspetto dinamico di un processo formativo, nessuno, a quel punto, si prende la briga di insegnargli quando e perché le regole valide fino a quel momento non sono più valide. Insomma improvvisamente non va più bene fare pipì in pubblico, rifiutarsi di salutare qualcuno, o dire in faccia alla maestra quanto è brutto quel colore giallo senape della sua capigliatura. Fortunatamente, pian piano, ogni bambino trova da solo il proprio equilibrio, e impara a dosare con grande saggezza, e a volte con furbizia, schiettezza e reticenza, sincerità e innocenti omissioni. Ma non sempre.

Può succedere, infatti, che, dopo aver imparato a proprie spese che certe cose non si fanno e scatenano nei “grandi” degli oh! di stupito raccapriccio, il bambino decida di non fare più nulla spontaneamente, di non esprimere più le proprie idee ed emozioni neppure se sollecitato, di diventare cioè una di quelle persone che da adulte vengono definite taciturne o introverse. Oppure, potrebbe diventare una persona alla perenne ricerca della cosa più trasgressiva, originale e provocatoria da fare in ciascuna occasione, cristallizzandosi in una condizione di adolescenza perpetua, con esiti talvolta irritanti, talvolta ridicoli. Sono persone facilmente riconoscibili: è sufficiente che ci sia un cartello di divieto perché si impegnino subito a fare la cosa vietata sotto il medesimo cartello; nelle conversazioni non concordano mai, per principio, con nessuno; se fumatori, si accendono la sigaretta appena le porte della metro si aprono, e non perché non resistano ancora un minuto, ma solo per affermare con una piccola trasgressione il loro piccolo diritto all’autodeterminazione.

Per questi “liberi pensatori” le parole formale, formalità, formalismo sono bestemmie; preferirebbero sentirsi chiamare assassini piuttosto che formalisti, al punto che quest’ultimo termine ha assunto definitivamente una connotazione negativa.

Peccato che non sappiano quasi mai contro chi e contro cosa stanno combattendo.

Se posso avanzare un’ipotesi, direi che combattono le antiche contraddizioni che sono state loro ammannite da bambini.

Eppure, anche senza rispolverare il vecchio Galateo ormai in pensione,  basterebbe spiegare, al momento giusto, che è un vantaggio per tutti che agli adulti non siano permessi gli stessi comportamenti che vengono accolti con un sorriso divertito se si tratta di bambini. Che le regole formali della convivenza civile – diverse per ogni società ed epoca - sono norme e comportamenti convenzionalmente concordati e adottati da una determinata società, in una data epoca, per facilitare i rapporti tra le persone. Che il rispetto di tali regole non è necessariamente sinonimo di falsità o ipocrisia, ma si traduce spesso in puro e semplice “rispetto”, lo stesso di cui anche noi possiamo godere. Che la spontaneità può essere sinonimo di naturalezza e genuinità, ma anche di primordiale istintività, più consona all’uomo delle caverne che all’evoluto uomo moderno, al quale si dovrebbe poter richiedere, senza essere tacciati di bieco ipocrita conformismo, se non l'eleganza del comportamento, almeno “un sereno dominio delle inclinazioni naturali”.

Che ignorare o disprezzare la buona educazione non ha niente a che vedere con la Libertà. 

* Il noto trattato del Cinquecento (1550 - 1555) di Monsignor Giovanni della Casa sulla "buona creanza" e sul corretto comportamento. Ha influenzato i costumi di gran parte della società occidentale degli ultimi secoli. Il termine "galateo" deriva da Galeazzo (Galatheus) Florimonte, il vescovo di Sessa che ha suggerito a Monsignor Giovanni della Casa di scrivere il trattato.

(Fonte: http://www.liberliber.it/biblioteca)

(Maggio 2005)

 

 

Lettera a Babbo Natale

 

Caro Babbo Natale,

è tanto tempo che non ti scrivo, ma quest’anno voglio sentirmi un po’ egocentricamente bambina e chiederti una lunga lista di doni solo per me.

Chissà che tu non riesca a portarmene almeno qualcuno...

 

·         Vorrei un paese in cui ognuno fosse libero di avere delle proprie opinioni, ma non si sentisse obbligato ad elargirle urbi et orbi.

·         Vorrei un paese in cui i genitori capissero che la cosa migliore che possono fare per i loro figli è farli camminare con le loro gambe.

·         Vorrei un paese in cui non si sprecassero ore preziose della propria vita nell’attesa di mezzi di trasporto pubblici sporchi malandati e inefficienti.

·         Vorrei un paese dove le persone parlassero sottovoce e non costringessero tutti i presenti nel raggio di un chilometro a venire edotti degli affari loro.

·         Vorrei un paese in cui il rispetto per tutti fosse talmente grande che i vecchi si chiamano vecchi, i non vedenti si chiamano ciechi, i diversamente abili si chiamano handicappati e i neri si chiamano negri. Le parole sono innocenti.

·         Vorrei un paese dove la responsabilità individuale non venisse continuamente e allegramente ignorata e le “colpe” sempre attribuite a qualcun altro.

·         Vorrei un paese dove la gente la smettesse di parlare di pace, e facesse pace con i propri parenti, colleghi, vicini di casa, concittadini. Anche con quelli che non la pensano come loro.

·         Vorrei un paese dove la parola “diritti” venisse pronunciata l’esatto numero di volte in cui è pronunciata la parola “doveri”.

·         Vorrei un paese dove la tolleranza non fosse necessaria, perché nessuno si pone nella situazione di dover essere tollerato.

·         Vorrei un paese in cui non si pretendesse dagli altri la soluzione di problemi che non si è in grado di risolvere da soli.

·         Vorrei un paese dove sfogarsi dei propri guai fosse l’eccezione e non la regola.

·         Vorrei un paese nel quale si discutesse parlando uno alla volta. Sempre che, per chi ha la parola, sia chiara la differenza tra una conversazione e una trattazione senza interlocutori.

·         Vorrei un paese in cui si rispettassero impegni e appuntamenti e le 10 sono le 10 e non le 10 e un quarto, le 10 e mezza, più o meno le 10.

·         Vorrei un paese in cui la gentilezza fosse facoltativa, ma la buona educazione fosse obbligatoria.

·         Vorrei un paese in cui gli avvocati si adoperassero perché la legge venga applicata in nome della verità, e non per vincere le cause.

·         Vorrei un paese in cui i medici agissero secondo sapienza e coscienza, e i pazienti si convincessero che la medicina non è onnipotente.

·         Vorrei un paese in cui i giovani sapessero quanto è gratificante farsi da soli la propria strada.

·         Vorrei un paese in cui non ci fosse discrepanza tra l’uguaglianza davanti ai diritti/doveri e il valore della diversità.

·         Vorrei un paese in cui chi ha di più, in conoscenza, intelligenza, talenti, e capacità, non dovesse vergognarsene come di una colpa.

·         Vorrei un paese in cui a scuola si insegnasse con esercitazioni pratiche a difendere le ragioni di un altro che non la pensa nello stesso modo.

·         Vorrei un paese in cui le persone si interrogassero più spesso sulla genesi delle presunte "proprie" convinzioni.

·         Vorrei un paese in cui si introducesse l’abitudine a rispondere alle domande. O al limite a rifiutarsi di rispondere.

·         Vorrei un paese in cui le aziende ricominciassero a comunicare direttamente con i loro utenti/clienti e non attraverso il muro di gomma dei call center.

·         Vorrei un paese in cui la beneficenza diventasse inutile perché i destinatari non ne hanno più bisogno.

·         Vorrei un paese in cui termini come serietà, correttezza, moralità, reputazione, dignità non facessero più sganasciare dalle risate.

·         Vorrei un paese in cui la mala fede esercitata pubblicamente fosse considerata un reato.

·         Vorrei un paese in cui si ricominciasse a scrivere lettere, oltre che sms.

 

Carissimo Babbo Natale, lo so, sono doni costosi, e tu dirai che quest’anno si tira la cinghia, che i rincari sono pesanti, che non hai avuto abbastanza fondi. E poi, hai ragione, forse non sono stata abbastanza buona...

Pazienza, sarà per il prossimo anno...

 Buon Natale, Babbo Natale!

 (Dicembre 2005)

 

L'involuzione della specie

 

Stamattina ho ricevuto un invito ad un corso di  “Formazione alla nonviolenza”.

Ammetto che sono rimasta alquanto perplessa; sarebbe come dire formazione alla nonaggressione, al nonomicidio, alla nonrapina, al nonstupro...?

Tanto più assurda mi appare la necessità di una formazione apposita al non-uso della violenza, fisica o verbale, in una società - come la nostra - in cui parallelamente ad un martellante predicare su pace, tolleranza, comprensione e solidarietà, vengono messe in atto continue e altrettanto martellanti manifestazioni di pura aggressività fine a se stessa, leggi violenza.*  Tralasciando l’aggressività “a mano armata” che spero sia ancora un reato, e come tale non debba essere oggetto di formazione al non-uso, limiterei le mie riflessioni alla violenza verbale.

Ieri, appena uscita di casa, mi sono trovata la strada bloccata da due auto ferme in direzioni di marcia opposte, i cui conducenti, novelli Mercuzio e Tebaldo, si fissavano con occhi di brace attraverso i vetri fumé dei finestrini dicendo ognuno all’altro: da qui io non mi muovo”. Tutti sappiamo com’è finita in quel di Verona. Vista l’impossibilità di far ragionare almeno quello dei due che aveva lo spazio sufficiente per procedere senza perdere la faccia, brandendo il mio cellulare ho annunciato serafica che stavo chiamando la polizia. Quattro occhi fiammeggianti di collera si sono appuntati su di me, ma il numero magico 113 ha magicamente sbloccato la situazione e con uno stridore di gomme i due contendenti si sono allontanati.

Sono certa che a molti sarà  capitato di assistere a scene simili. Sempre che non l’abbiano interpretate... Purtroppo non è solo la strada teatro di furibonde contese sul... nulla. Capita negli uffici, nei negozi, a scuola, per non parlare dei condomìni, del vicinato, e dei nostri tranquilli gruppi di famiglia-in-un-interno.

Ma il teatro dei teatri è la televisione. Grande immensa sorella con l’occhio instancabilmente puntato sul mondo. E, insieme a tutta la Grande Violenza che si abbatte sulla nostra coscienza (per chi ce l’ha), si creano ad arte mille altre occasioni di piccola violenza, meschina, stupida, gratuita.

Così si assiste incessantemente all’attacco feroce di gente nota per essere nota ad un presentatore (per la serie “facce ride”), ad una canzonetta, ad un cantante o persino ad un abito o una pettinatura (ogni riferimento al festival di Sanremo non è affatto casuale); alle zuffe ininterrotte dei cosiddetti reality; agli indecorosi battibecchi dei vari contenitori in cui gli ospiti non si distinguono dagli habitué del pubblico s-parlante; al linciaggio in diretta di ragazzini apparentemente arroganti e coriacei, ma in definitiva sempre ragazzini, da parte di “adulti” irresponsabili e villani che, in nome della libertà d’opinione, ci gratificano della loro profonda incompetenza. Mi sto riferendo con quest’ultimo esempio alla trasmissione Amici (nome decisamente da cambiare), osservatorio preziosissimo per chi, come me, si diletta, per mestiere e per passione, di comunicazione e dinamiche di gruppo. Do atto alla De Filippi che per suo merito è tornata la danza in tv, ma non è più sopportabile che ogni trasmissione – pur essendo partita in tutt’altro modo – si trasformi in un colosseo di tutti contro tutti, in cui l’istigazione alla violenza viene fatta passare come normale. Ma la cosa più inquietante l’ha detta proprio la De Filippi, quando le è scappato di affermare che se la trasmissione esiste e resiste è perché ha un’alta audience e – indovinate un po’ – come si alza l’audience? Con le risse, con i figuranti a gettone che seminano maldicenza e ostilità, con le lacrime di umiliazione e di rabbia di tanti ragazzini allevati nella convinzione che questo sia il prezzo da pagare al talento e al successo.

Si straparla di solidarietà in un’orgia di io-sono–come-te-tu-sei-come-me, mentre ovunque, con un perverso processo imitativo, dentro e fuori la tv, proliferano giudizi affilati come lame in un duello, opinioni irose scagliate come rivalse, piccole misere vendette lanciate, in realtà, contro una vita – la propria - sentita come anonima e insulsa. Che spreco di energie!

Ma come è possibile che una società “sana” accetti tutto questo, anzi no, ne sia l’artefice?! Se il meccanismo che premia o boccia una trasmissione è l’audience, allora è il gradimento del pubblico che stabilisce i programmi, o no? Quindi, o si decide di modificare il meccanismo e si torna all’idea che, se la televisione non deve necessariamente educare, almeno non deve diseducare. Oppure dobbiamo accettare la terrificante idea che viviamo in una società che si nutre, e nutre i suoi figli, di un’aggressività sguaiata e crudele che ha l’unico scopo di sfogare frustrazioni e invidie; una società che sta tirando su dei galletti da combattimento, povere creature destinate ad uccidere per non essere uccise.

Ma io davvero non ci riesco. Chi mi conosce sa che non sono per l’iperprotezione dei ragazzi, anzi. Genitori e insegnanti dovrebbero riprendersi con fermezza il loro ruolo educativo, intervenendo energicamente ogni qualvolta sia necessario. E neppure mi piace l’ipocrisia, quella di una volta tutta moine e falsità, tanto meno quella di oggi tutta buonismo e volemosebene. Tuttavia, senza un controllo razionale dell’attuale incontinenza verbale, per alcuni – più giovani e sprovveduti - il passaggio dalla violenza pensata e parlata a quella agita può essere breve (non a caso il bullismo è un fenomeno in preoccupante crescita).

 

E veniamo alle ipotetiche cause. Mi perdonino i sociologi se invado il loro campo, ma ho l’impressione che la nostra quotidiana violenza spicciola, fruita con pari ingordigia da attori e spettatori, sia il frutto di una cultura schizofrenica che, mentre propone il valore della diversità, impone un generale appiattimento (in basso) nel tentativo di raggiungere un’uguaglianza fittizia e l’abolizione della competitività come cose buone e giuste. Se è giusto che uguaglianza deve esserci su diritti e doveri, opportunità e strumenti, pensare che davvero siamo tutti uguali è semplicemente innaturale, e anche ingiusto. Voler migliorare la propria condizione materiale, e voler altrettanto aspirare ad una evoluzione esistenziale, facendo emergere le proprie potenzialità, in una ricerca del proprio primato, in competizione con se stessi ma anche con gli altri, è una delle caratteristiche più belle, affascinanti (e misteriose) degli esseri viventi. Se non fosse così, saremmo ancora tutti nelle caverne a mangiare carne cruda.

Una giusta e misurata aggressività e una corretta competizione sono quelle che coincidono con l’istinto di sopravvivenza, ci permettono di affrontare le avversità, di non soccombere alle prevaricazioni, di migliorare la nostra e l’altrui esistenza. E, a mio parere, aiutano, paradossalmente, a combattere la violenza. Queste componenti dell’animo umano possono essere estremamente positive se educate e indirizzate, mentre possono essere molto pericolose se vengono ignorate o represse.

Insomma, penso che cancellare forzatamente qualcosa di innato è utopico quanto controproducente: chi non conosce quell’irrefrenabile voglia di cioccolata che scatta non appena questa viene esclusa da una dieta?

Mi scuso per la metafora azzardata e un po’... golosa, ma davvero non credo si possa insegnare la non-violenza, così come mi sembra bizzarro insegnare una qualsiasi non-qualcosa. Si può invece insegnare, e imparare, a gestire bene la nostra naturale aggressività, a farne uno strumento utile.

E perché non usare un po’ di sana aggressività per combattere il degrado e l’imbarbarimento della nostra società? Proviamo a far tornare di moda, pur nella competizione, rispetto ed eleganza.

 

Se questo vi sembra un accorato appello, beh, lo è. 

* Esistono mille definizioni per violenza e aggressività, ma forse, semplificando al massimo, la differenza fondamentale è che se l’aggressività può essere finalizzata a qualcosa di positivo e può - anzi deve – trovare il suo limite nel danno ad altri, la violenza realizza sempre e comunque un danno per qualcuno, perché quello è il suo unico scopo.

(Marzo 2006) 

 

Lippi ha ragione

Non mi interessa il calcio. Ebbene sì, esiste anche qualcuno che riesce a sopravvivere facendo a meno di questo invadente circo in boxer e calzettoni, non per snobismo, per carità; solo che se guardo una partita, non riesco a non distrarmi nei primi 3 minuti. E’ certamente un mio limite.

Però una notizia sentita casualmente alla vigilia di una partitissima dei mondiali, mi dà lo spunto per parlare di un fenomeno che non appartiene certo solo al pianeta calcio. No, no, non ho alcuna intenzione di impantanarmi nella palude delle grandi truffe, dei mega-intrallazzi, delle pasticciopoli nazionali. 

Lippi ha ragione.

Lippi – confesso che non so esattamente chi sia salvo il fatto che prepara la nazionale – ha puntato il dito, forse senza saperlo, su un malcostume tipicamente e trasversalmente diffuso. Un vizietto che va ben oltre il mondo del calcio e ben oltre il mondo giornalistico. Con il suo morbido accento (credo) toscano, ai giornalisti che insistevano per conoscere in anticipo la formazione della squadra, ha risposto approssimativamente: se io non rivelo la formazione “è per non dare vantaggi all’avversario”, l’ho detto tante volte ma voi non volete cambiare opinione, e continuate a telefonarmi la sera in albergo.  

Ora, immagino che si possa discutere su questo come su altri punti di vista, ma non ho sentito, in varie edizioni successive di GR e TG, alcuna discussione su questa strategia. Mentre, chiarissimo, il titolo di un giornale radio sentenziava: Lippi “nasconde” la formazione e apre una dura polemica con i giornalisti.

E nel servizio: le premesse non sono buone, Lippi “è nervoso”, sentite come risponde a una semplice domanda… [GR1 26 giugno 06 ore 8]

Nessun commento sulle ragioni di tale risposta, pepata sì, ma quanto mai giusta. Singolare comportamento da parte di chi dovrebbe informare. 

Mi è tornato in mente quanto lamentato da un mio paziente circa i suoi difficili rapporti con un familiare: quello che più mi irrita è la sua pretesa di dirmi come io “sono”. 

Questi sono solo due esempi, ma se cominciate a farci caso, vi accorgerete quanto spesso, in tutte le più svariate circostanze, pubbliche o private, ciò accade. Quanto spesso i giornalisti come i politici, gli amici come gli ospiti TV, i condòmini come i colleghi di lavoro, affibbiano etichette e giudizi su quello che una persona è, è stata, o dovrebbe essere, tanto più quanto più la connotazione è negativa. Lippi è nervoso, tu sei aggressivo, l’insegnante è troppo duro, il collega è un lavativo. Saltando sorprendentemente la fase del “perché”. Naturalmente gli insulti fanno eccezione, essendo per definizione giudizi negativi diretti e finalizzati a colpire, ma almeno, per certi versi, leali. 

Infinite discussioni nascono e si esauriscono, ahimè senza vantaggio per alcuno, nel definirsi reciprocamente, in modo più o meno intelligente e sottile, o viceversa in modo becero e pesante, senza mai neppure sfiorare il contenuto della discussione stessa. In altri termini, non si discute se rivelare la formazione di una squadra prima di una partita può davvero favorire l’avversario. Non si discutono le motivazioni di chi ad un referendum vota sì oppure no. Non si discute quasi mai perché una determinata scelta – o valutazione, o convinzione, o condotta - può essere più o meno conveniente di un’altra in campo economico, lavorativo, sociale, relazionale. No, si discute, spesso si litiga, su CHI dice, pensa, sceglie o decide una cosa piuttosto che un’altra. CHI è, in quale categoria, o ceto, o provenienza geografica, o colore politico, eccetera eccetera, va inquadrato. E si reagisce a seconda della categoria alla quale si pensa di appartenere e che si pensa di dover difendere, a tutti i costi.

I giornalisti che si sentono offesi se non vengono informati; i familiari che pretendono di imporre la propria visione della vita; i politici, professionisti o simpatizzanti, che reclamano il potere come dovuto presumendo di conoscere l’unica vera Soluzione Globale alle difficoltà del mondo; gli sportivi che, non dovendo assumersi responsabilità in prima persona, sanno sempre puntualmente cosa bisogna (o bisognava) fare per vincere. 

L’elenco potrebbe essere lunghissimo, ma il meccanismo è sempre lo stesso, nei grandi sistemi come in quelli piccoli piccoli: l’incapacità, o meglio l’indisponibilità, sempre più opprimente e pericolosa, ad ascoltare le ragioni degli altri.  

(Giugno 2006)

 

“Dal fanatismo alla barbarie c'è solo un passo”

(Denis Diderot)

  

L’effetto butterfly  è quello per cui il battito di una farfalla in Cina può generare un tifone negli Stati Uniti.  Questo è il nucleo della Teoria della complessità, nata dagli studi del Nobel Ilya Prigogine (1917-2003).

 “Oggetto della Teoria della complessità sono i sistemi complessi, caratterizzati da numerosi elementi qualitativamente diversi tra di loro, e da numerose connessioni non-lineari tra gli elementi. Questo significa che piccole variazioni nei comportamenti degli elementi possono generare effetti inimmaginabili. Ciascuno di noi è un sistema complesso, costituito da numerosi e diversi elementi in relazione tra di loro. Sistemi complessi sono anche l’azienda in cui lavoriamo e le associazioni che frequentiamo. Internet è un sistema complesso. Cellule, organismi, cervello, economia, reazioni chimiche, fluidi.”  (Luca Comello). 

Il caso Englaro è la farfalla e il tifone è quello che si sta abbattendo sul “sistema paese”.

Credo sia ormai inutile e pretestuoso continuare a discutere se le volontà di Eluana siano o non siano state quelle formalmente accertate da infinite indagini; se il padre sia un bieco assassino o un eroe sublime; se i medici implicati siano dei pazzi crudeli o agiscano secondo scienza e coscienza; se quella povera creatura sia una condannata a morte, o un corpo condannato a sopravvivere. In definitiva se lo stato vegetativo è “vita” o non lo è. Non se ne verrà mai fuori. Troppe le parole che fanno la differenza: come “far” morire, e “lasciare” morire. Troppo grande e ignobile la strumentalizzazione in atto. Troppi gli “elementi qualitativamente diversi”  di cui sarebbe necessario tener conto.

Il problema è un altro.

Il problema è a monte.

Si chiama Libertà.

E’ incredibile quanti significati si possono dare a questa parola. E’ una domanda che faccio spesso nel mio lavoro di medico psicoterapeuta. E le risposte sono tutte diverse. Perché lo chiedo? Perché io devo aiutare le persone a trovare la loro libertà, non la mia. Chiedo loro se sono credenti, oppure no, quali sono i loro ideali, quale - per loro - il senso della vita.

Se non lo facessi, come potrei aiutarle?

Questo presuppone un grande rispetto, e mi costa a volte un grande sforzo. Perché anch’io ho idee e ideali e convinzioni. Ma io insegno a guidare e a riconoscere la segnaletica, come dico spesso, non decido la direzione. Non è mio compito giudicare se la direzione è giusta o sbagliata. Se è quella che consente ad una persona di raggiungere uno stato di maggiore equilibrio e benessere, quella è la direzione giusta.

Quand’ero piccola mi dicevano: ricordati che la tua libertà finisce dove comincia quella degli altri.

Ho sempre tenuto fede a questo insegnamento. Non sempre mi viene ricambiata la cortesia.

Rispettare la libertà di un’altra persona significa innanzitutto capire su quali presupposti quella persona costruisce il proprio concetto di libertà. Chi ha come presupposto una fede religiosa non può che derivare le proprie convinzioni da quella fede. Chi professa la fede cristiana ad esempio dice che la vita è un dono del Creatore, che è sacra, e che di conseguenza non appartiene all’individuo. Giusto, legittimo, coerente.

Ma se il presupposto non è questo? Se una persona crede in un altro dio, o se non crede affatto?  Potrebbe pensare che la vita è un fenomeno biologico con un inizio e una fine e che, essendo priva di carattere sacro, appartiene all’individuo. Giusto, legittimo, coerente.

I primi identificano la “vita” con la presenza dello Spirito, i secondi con uno stato di coscienza che consenta una pur minima vita di relazione.

I primi pensano che sia il Dio in cui credono a decidere se dare o togliere la vita, i secondi credono nell’autodeterminazione.

Molti anni fa, ho conosciuto una splendida persona, intelligente, colta, amante della vita, che, dopo un intervento per cancro polmonare, scelse  di non fare più alcun controllo. Stentavo a capire e chiesi alla moglie come viveva questa decisione. Disse: è un suo diritto, lo stesso che vorrei per me. Il nostro è sempre stato un amore fondato sul rispetto. E’ morto qualche anno dopo, sereno, nel suo letto.

E se l’autodeterminazione non è possibile? Sono molte le circostanze in cui qualcuno, legittimato a farlo, prende decisioni per altri. I testimoni di Geova hanno ottenuto, per i loro figli minorenni, che vengano evitate le trasfusioni di sangue. Se una persona in stato di incoscienza ha bisogno di un intervento urgente, sono i familiari a dare l’assenso. Ma, anche uscendo dal campo medico, un bambino, generalmente viene battezzato da neonato, eppure non si sa se, da grande, vorrà abbracciare o no la fede cattolica.

Certo, si può credere, o no, nella Famiglia come istituzione. Ma se ha un senso l’istituzione della famiglia, allora i genitori sono legittimati a prendere decisioni per i figli. Perché, fino a prova contraria, si suppone che i genitori conoscano e amino i propri figli più di chiunque altro e decidano per loro il meglio.

Le leggi possono essere giuste o sbagliate, perché fatte dagli uomini, ciò nonostante vanno rispettate. Ma ci sono temi su cui l’essere umano, se è onesto e consapevole della propria limitatezza, continuerà ad arrovellarsi, senza trovare mai risposte definitive.  Su questa "soglia" bisogna avere il coraggio di fermarsi, nell'assoluto rispetto delle reciproche posizioni.  E solo una cosa – pur nella sua imperfezione - può ridurre il numero degli errori, e degli orrori:  la Libertà della coscienza individuale.

Altrimenti è fanatismo, quello dei proclami, delle urla, degli insulti, dell’ignoranza spacciata per opinione, della mistificazione spacciata per nobiltà d’animo, quello dei giudizi sommari e delle condanne senza appello. Di chi? Di chi la pensa diversamente, è ovvio.

Il fanatismo inizia laddove chiunque, convinto delle proprie infallibili verità, non si limiti più ad applicarle per sé e per le persone di cui ha la legittima tutela, ma inizi ad imporle ad altri. E se, per farlo, comincia ad usare la Violenza delle parole o la Forza, fosse pure la forza delle leggi, siamo alla barbarie.

    (9 Febbraio 2009)

 

 

Libertà equivalenti

 

Molti anni fa, mi capitò di discutere con un signore il quale sosteneva che la sua libertà di fumare (nell’ambiente in cui ci trovavamo entrambi) fosse “equivalente” alla mia libertà di chiedergli di non fumare. Fermo restando che le due libertà non erano – nella medesima unità spazio-temporale – conciliabili, in quanto l’esercizio dell’una avrebbe limitato l’altra, non potevano tuttavia dirsi equivalenti per il seguente ragionamento.  L’apparato respiratorio è costruito per respirare aria pulita. E’ un diritto di tutti respirare aria pulita. La libertà di A di esercitare il diritto di respirare aria pulita non danneggia la salute di B. La libertà di B di fumare danneggia la salute, la sua e quella di A. Ergo, se un giudice avesse dovuto scegliere chi dei due era tenuto a rinunciare alla propria libertà per lasciare spazio a quella dell’altro, avrebbe scelto B e non A.

Lo stesso esercizio di logica può essere fatto per molte altre situazioni. E, in moltissime situazioni, se la libertà di uno limita o esclude quella dell’altro, è inevitabile scegliere a quale dare priorità.  

Viceversa esistono situazioni in cui non è affatto necessario scegliere, perché una libertà individuale non intaccherebbe minimamente la libertà altrui.

La querelle sul testamento biologico poggia su talune questioni a mio avviso irrisolvibili. Ne riassumo alcune:

·         se un essere umano ha il diritto di decidere per la propria vita, oppure no

·         se la vita sia un bene assoluto, a prescindere dalla qualità, oppure no

·         se lo stato vegetativo sia vita, oppure no

·         se la nutrizione artificiale sia un atto medico, oppure no

·         se in mancanza di volontà scritte siano valide volontà espresse verbalmente, oppure no

·         se sono valide volontà scritte quando si sta bene, non potendo prevedere come si starebbe in condizioni diverse, oppure no

Ritenendole, come dicevo, questioni non risolvibili in senso univoco, trovo inutile e pretestuoso discuterne. Quindi mi limiterò a delle riflessioni generiche.

Rispetto al primo punto (e in parte al secondo), va da sé che la risposta è strettamente legata al fatto di credere o non credere in un Creatore le cui volontà vanno (o andrebbero) rispettate. Ciò che si fa (o si dovrebbe fare) in nome di una Fede, attiene alla coscienza di ciascun credente.

Riguardo all’ultimo punto, invece, vorrei nuovamente fare un piccolo esercizio di logica. Un organismo umano (e non entro nella polemica relativa ai vari stati di coscienza) in teoria potrebbe essere tenuto in funzione artificialmente all'infinito. Se le tecniche si evolvono abbastanza, si potrebbe addirittura “conservare” dei cadaveri, in attesa che possano essere risvegliati. Non è una boutade, ma è cronaca che alcuni signori, dotati evidentemente di grandi mezzi, sembra si siano fatti ibernare post-mortem esattamente con questo obiettivo: essere riportati in vita nel momento in cui la scienza fosse pronta.

 

Uno dei punti più controversi del testamento biologico è appunto l’eventualità di un ripensamento, particolarmente nel caso in cui nuove terapie e/o tecnologie fossero in grado di modificare gli esiti precedentemente ipotizzati di un determinato quadro clinico. Sembrerebbe infatti che nobili paladini più realisti del re, pur non avendo alcun intento di stilare un proprio biotestamento, siano seriamente e altruisticamente preoccupati per gli eventuali ripensamenti di chi, con le idee abbastanza chiare e assumendosene la responsabilità, il testamento vuole farlo. A suo rischio e pericolo.

 

Ma, ironia a parte, se si volesse davvero tener conto delle diverse opinioni, credenze, culture, religioni, se si volesse in altri termini rispettare davvero le Idee e la Libertà di ognuno, come dovrebbe essere un testamento biologico? Necessariamente individuale, articolato e personalizzato, un documento in cui  una persona, in grado di intendere e volere, possa esprimere nei particolari e senza vincoli le proprie intenzioni e, volendo, le proprie motivazioni.

Potrebbero davvero essere espresse tante libertà equivalenti, tutte legittime, tutte degne di rispetto.

Una persona potrebbe chiedere di essere mantenuta in vita in ogni caso, con ogni mezzo disponibile al presente o in futuro, chiedendo magari nel contempo un sostegno per la propria famiglia.

Oppure, pur rifiutando l’accanimento, ma temendo di  perdere una possibile opportunità di guarigione offerta dalla scienza in tempi successivi alla stesura del testamento, potrebbe indicare entro quali limiti contenere i trattamenti atti a prolungare la sopravvivenza.

Oppure, potrebbe accettare terapie anti-dolore e rifiutare altri trattamenti medici e nutrizione artificiale non finalizzati alla guarigione. In questo caso dovrebbe anche essere ritenuta capace di scegliere tra il rischio di cambiare idea senza poterlo comunicare, e il rischio di essere condannata a vivere per forza, in attesa di risvegliarsi (in condizioni intuibili) per ipotetici progressi terapeutici; insomma, tra i due rischi, un individuo dovrebbe avere il diritto – per se stesso - di scegliere consapevolmente il primo.

Anche l’eventuale designazione di una persona di fiducia che, in caso di necessità, possa decidere al posto dell’interessato, è un atto che dovrebbe spettare al singolo individuo e a nessun altro. Può essere una scelta sbagliata? Certo: come tutto ciò che è umano. Solo che, nel dubbio, si dovrebbe esser liberi, anche in questo caso, di correre il rischio di sbagliare una propria scelta, piuttosto che il rischio di cadere in mani (e teste) sbagliate, non in linea cioè con la propria personale visione della vita. O a qualcuno è dato di dirci in chi riporre la nostra fiducia?

 

Con un pizzico di onestà, non è difficile rendersi conto che nessuna delle scelte personali esposte (ma ne sono possibili molte altre) potrebbe, in alcun modo, neppure scalfire la libertà altrui.

Allora mi chiedo: per quale motivo non si riesce a stabilire regole condivise che consentano o persino aumentino la libertà individuale, pur non venendo intaccata quella altrui? Per quale motivo si punta invece a soluzioni uguali per tutti, che, accreditando legittime scelte di alcuni penalizzano inevitabilmente altrettanto legittime scelte di altri, su temi che dovrebbero essere privati e su diritti che dovrebbero essere inviolabili?

Parafrasando il motto orwelliano, che ci siano libertà più equivalenti di altre?

 

  (Marzo 2009)

 

 

Limiti

Dall’individuo “sincero” alla società violenta

 

Sarà capitato anche a voi che un amico, nel bel mezzo di una tranquilla chiacchierata, abbia lanciato strali velenosi su qualcosa o qualcuno che voi invece apprezzate, senza troppo preoccuparsi della vostra opinione. Certo, si possono sempre ignorare le frecciate buttate lì quasi per caso, far finta di nulla, o tentare di proporre – generalmente inascoltati - un diverso punto di vista, magari meno emotivo; ma se ciò è relativamente facile quando la frecciata riguarda una squadra di calcio, è meno facile se riguarda, ad esempio, la politica.

Allora forse avete tentato di spiegare all’amico, con il tatto dovuto, che, neppure in nome dell’amicizia, ha il diritto di insultare qualcuno, solo perché a lui non piace.

E’ probabile che la reazione stizzita sia stata: io sono una persona sincera, se giudico bene o male qualcuno, mi sento libero di dirlo chiaramente.

Il sillogismo prospettato è questo: essere liberi significa essere sinceri; essere sinceri equivale a dire tutto quello che si pensa; ergo, dico sempre quello che penso, anche se quello che penso è offensivo per chi la pensa diversamente.

Proverò a dimostrare che il ragionamento non quadra.

Immagino che si possa concordare sul fatto che, alla base di un’amicizia, dovrebbe esserci la stima. Si possono avere gusti e passioni in comune, ma possono esistere bellissime amicizie anche tra persone completamente diverse per temperamento, interessi, convinzioni. Purché ci sia stima reciproca, cioè quella particolare disposizione mentale che mi fa credere che se tu la pensi in un certo modo, avrai le tue buone ragioni; ne consegue che se io offendessi qualcuno o qualcosa che tu apprezzi, solo perché a me non piace, offenderei anche te, le tue idee, la tua sensibilità.  Se non lo faccio non è per ipocrisia o viltà, ma per una forma di delicatezza e – paradossalmente – autentica sincerità, non solo formale: se è vero che rispetto te, rispetto le tue idee, anche se non le condivido. Va da sé che se le tue convinzioni sono per me inaccettabili, non ha senso parlare di amicizia.

 

Se dalle relazioni interpersonali si passa al piano collettivo, il discorso cambia di poco. Basta sostituire al concetto di “sincerità” quello di “libertà di opinione”.

Negli ultimi anni il grado di conflittualità sociale si è alzato in modo allarmante, in proporzione al grado di libertà percepita, portando l’aggressività espressa a livelli che non esiterei a definire patologici. Confondere la libertà di opinione con la libertà di insulto, la libertà di espressione con la libertà di violenza fisica o verbale, la libertà di informazione con la libertà di insinuazione e calunnia, è un segnale di profondo malessere sociale. Di immaturità prima che di inciviltà. Come dire: libertà = tutto lecito.

La Libertà (come la sincerità) non è un bene assoluto, e perde tutto il suo infinito valore se la si priva della sua connotazione di bene relativo. Il che è confermato dal fatto che la vera libertà è possibile, per assurdo, solo all’interno di determinati confini. Confini che non sono più vissuti come tali quando, trasformandosi in autoregolazione, diventano strumento di maggiore libertà.

Limiti discutibili certo, negoziabili, migliorabili. Limiti su cui l’umanità si confronta e si confronterà sempre. Ma pur sempre necessari. Dai piccoli gruppi di ominidi preistorici alle società più moderne e complesse. Codici non scritti, regolamenti, leggi, comandamenti, costituzioni e statuti: la libertà non può non essere regolata. Diventa altro.

La possibilità di esprimersi nella nostra attuale società, impensabile pochi decenni fa, sta determinando una specie di black out dei sistemi di autoregolazione.  I mezzi di comunicazione sono “di massa” e quindi alla portata di tutti. Internet, come qualsiasi altra innovazione di quella potenza, può produrre meravigliosi risultati di conoscenza o guai disastrosi, in parte al momento poco prevedibili.

Prendiamo i forum e i blog. In quale altro periodo della storia dell’umanità le persone comuni hanno avuto la possibilità quasi illimitata di esprimere pubblicamente il proprio pensiero?

Ora è possibile. Chiunque può partecipare ad un forum o aprire un proprio blog e mettere in libera uscita pensieri sublimi e intuizioni geniali; così come sproloqui inopportuni e attacchi violenti, su temi in cui raramente ha una specifica formazione o qualche  competenza.  Spacciando l’arroganza per coraggio, nella maggior parte dei casi all’ombra protettiva di un nickname (è bizzarro che chi si lascia andare a insulti e aggressioni si scandalizzerebbe davanti ad una lettera anonima, eppure scrivere con un nickname è l’equivalente moderno della vecchia lettera anonima compilata con i caratteri ritagliati da un giornale…).

Perché questa insopprimibile esigenza di esercitare una sfrenata tuttologia, spesso feroce, non assumendosene neppure la responsabilità? Forse queste persone non riescono ad esprimersi in altri ambiti?  Forse non riescono a farlo in maniera tale da non scatenare reazioni risentite? Forse trovano più facile insultare chi non si conosce? Per quale motivo non considerano necessario imporsi dei limiti?

La situazione non è migliore nel professionismo della comunicazione: quanti politici, intellettuali, ecclesiastici, accademici, "opinionisti", dediti ad intemperanze verbali ignobili... Il tutto amplificato da certo giornalismo furioso, stampato o teletrasmesso. Titoli che sembrano bombe a mano, spesso neppure congrui al contenuto dell’articolo, testi zeppi di condizionali, di espressioni denigratorie, formulate sulla base di ipotesi e insinuazioni precedenti, a loro volta basate su congetture, in un circolo vizioso e virtuale di conclusioni dedotte non da fatti accertati e fonti inoppugnabili, ma da ciance  faziose, e non disinteressate.

Parole, e parolacce, vomitate senza cautela, senza rispetto, senza onestà. Senza limiti.

Eppure, come la stima dovrebbe essere alla base di un’amicizia, il rispetto reciproco dovrebbe essere il catalizzatore irrinunciabile di una società veramente evoluta e democratica. Dimenticare, dopo tante battaglie per l’uguaglianza, che il diritto al rispetto è un primario diritto di tutti, può condurre all’aberrante convinzione di dover “raddrizzare” le cose anche con la forza.  Ed ecco che la Libertà è sporcata e avvilita da una nuova barbarie, un analfabetismo psicologico di ritorno, caratterizzato da comportamenti primitivi, marcata intolleranza alle frustrazioni e una preoccupante rinuncia a controllare gli impulsi. Sembra quasi che lo sforzo di trovare il modo di esprimere le proprie idee, mantenendo il rispetto per quelle degli altri, sia ritenuto un vezzo démodé, un’inutile perdita di tempo.

Ma il pericolo maggiore viene sottovalutato: come anche le psiconeuroscienze ci suggeriscono, l’aggressività fuori controllo da verbale può diventare facilmente agìta;  l’odio delle parole, come un lievito mefitico, può montare e montare. Trasformarsi in violenza.

Bisogna fermarsi in tempo.

O non ha senso parlare di Civiltà.


    (Agosto 2009)  

 

Non si gioca a “testa” o “croce”

... per ogni argomento, è possibile considerare diversi livelli di discussione,

tutti interconnessi ma anche distinti...

 

Nel mio lavoro è vitale, ancorché faticoso ma innegabilmente avvincente, sforzarsi di ragionare. Ragionare con ordine, senza mescolare i “livelli” di analisi. Dubbi, domande, dati, più che asserzioni. Senza pretese di proselitismo.

Prenderò, come sempre, spunto dall’attualità per spiegare di cosa sto parlando.

Una bollente polemica, recentemente generata da una sentenza della “Cour européenne des droits de l'homme”, e condotta, come ormai è sconfortante consuetudine, con toni esasperati e bellicosi, sarà lo spunto: crocefisso sì, crocefisso no.

Riguardo all’oggetto della discussione, la mia personale opinione non ha alcuna importanza.

Ho scelto di suddividere il ragionamento in 3 diversi piani, tralasciandone necessariamente altri. 

 

1. Il crocefisso come simbolo

 C’è chi dice che il crocefisso è un simbolo solo religioso, e chi sostiene che è un simbolo culturale.

Nel primo caso, tenendo conto del Nuovo Concordato del 1984, il crocefisso non andrebbe esposto nelle scuole statali, in quanto l’Italia è uno stato laico e non esiste più una “religione di stato”. Non andrebbe altresì insegnata la religione cattolica, così come qualsiasi altra religione. Sarebbe invece logico e doveroso che tutte le religioni fossero studiate nell’ambito dei programmi di storia, letteratura, filosofia, geografia. Dati storiografici, influenze culturali, conseguenze politiche sui diversi stati, nelle diverse epoche. Lasciando le cose dello Spirito ai luoghi di culto.

Nel secondo caso, vorrebbero continuare ad esporlo nelle scuole quelli che ritengono il crocefisso simbolo della nostra cultura, o come alcuni dicono, dei valori dell’occidente.

Una domanda a latere, da porsi in entrambi i casi, potrebbe essere questa: ammesso che si tratti di un simbolo, religioso o culturale che sia, perché proprio il crocefisso?  La crocefissione era un supplizio in auge presso i romani, e prima ancora utilizzato da altri popoli. Non so molto di teologia e non saprei proprio risalire ai motivi originari di questa scelta (Costantino?), però, dovendo scegliere un simbolo che rappresenti le origini della nostra cultura religiosa, perché non una natività, una resurrezione, un’ascensione al cielo, insomma un’immagine più spirituale, anziché una raffigurazione della crudeltà umana?

Ma la domanda essenziale è: un Paese, uno Stato, una Cultura, hanno davvero bisogno di simboli?

O dovrebbero piuttosto essere rappresentati da un popolo che si dimostri saldo nei valori fondamentali, unito nonostante le differenze, capace di fare buone leggi e di farle rispettare, e che non si lasci andare a forme di fanatismo generato dalla paura e dalla coscienza di una intrinseca, seppur negata, fragilità?

 

2. Crocefisso e Costituzione

Riporto i 5 articoli inerenti alla religione: 

art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

art. 7. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
art. 8. Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

art. 19. Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché‚ non si tratti di riti contrari al buon costume.
art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.

Da questi articoli si evince che la libertà di religione viene garantita pienamente e non è data dalla presenza o meno di specifici simboli. In particolare, per quanto riguarda la religione maggiormente rappresentata, esistono scuole cattoliche, università cattoliche, associazioni cattoliche. Possono liberamente riunirsi ed esercitare le rispettive professioni, attività, o ruoli, in un’ottica religiosa, medici cattolici, ginecologi cattolici, psicologi cattolici, genitori cattolici, economisti cattolici, pensionati cattolici, ecc.

La matrice cattolica della nostra cultura, benché indebolita dall’attuale tendenza al relativismo, al razionalismo, all’illuminismo e a qualche altro senza dubbio diabolico “ismo”, è tuttora forte e alla base dei nostri migliori princìpi di uguaglianza e rispetto e, se non proprio di “amore” per il prossimo, se non altro di tolleranza e solidarietà. Almeno nelle intenzioni.

 

3. Il crocefisso come contrapposizione all’eccessiva invadenza, reale, temuta, o percepita, di altre culture e/o religioni

E qui la domanda potrebbe essere: la forza di uno stato e della sua cultura in cosa consiste? Nella presenza più o meno diffusa di simboli o nella consapevolezza di valori radicati e condivisi?

Un Paese è costituito da tutti i cittadini. Di questi, in Italia, la maggior parte sono cattolici. Ma non tutti. Quindi considerare l’insieme degli italiani senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, è un elemento di forza, mentre considerare le varie fedi religiose introduce un elemento di divisione e quindi di debolezza.

In altre parole, la bandiera nazionale può efficacemente rappresentare tutti, la croce no.

Un cittadino italiano non è meno italiano se, nel rispetto delle leggi, delle religioni e delle libertà altrui, professa una religione diversa dalla cattolica, oppure, non essendo stato beneficiato del dono della Fede, è agnostico o ateo; quindi dovrebbe potersi aspettare che non siano esposti simboli religiosi nelle scuole statali, senza per questo essere tacciato di ostilità alla Chiesa, o addirittura di “cristofobia”. (Termine che tra l’altro non significa nulla. Perché se ci si riferisce ad una vera "fobia", le questioni di principio non c’entrano. Se invece ci si riferisce a questioni di principio, il termine è improprio, oltre che sproporzionato. Come dire che si è "fobici", ogni qualvolta si è contrari  a qualcosa). 

Il dibattito non verte sull’abolizione dei crocefissi in quanto tali, ma sulla loro presenza nelle aule delle scuole statali. Non va dimenticato che nelle aule ci sono ragazzi e bambini. Come si può trasmettere loro dei princìpi di uguaglianza e multiculturalità se si impone un simbolo rappresentativo di un’unica religione? E come si fa a spiegare ai bambini che non devono considerare “diverso” un compagno non cattolico?

Si può essere d’accordo sulla matrice cristiana della nostra cultura, e sulla necessità di tutelarla e rafforzarla, e contemporaneamente non essere d’accordo sull’esposizione del crocefisso nelle scuole.

Sarebbe lecito chiedersi perché un credente, in particolare un cristiano, portatore appunto di quei valori di tolleranza e generosità che dovrebbero contraddistinguerlo, ha bisogno di  imporre i propri simboli, piuttosto che testimoniare la propria fede con l’esempio, ma questo è ancora un altro discorso o, come dicevo, un altro “livello”.

Ci sono infatti molti altri aspetti della questione che andrebbero presi in considerazione (significato di laicità, giurisprudenza sovranazionale, rapporti stato-chiesa, ecc.). Ma mi fermo qui.

 

Il mio intento era solo quello di dimostrare con un esempio che, per ogni argomento, è possibile considerare diversi livelli di discussione, tutti interconnessi ma anche distinti.

E, come spesso accade, non è affatto detto che due persone che concordino ad un livello, concordino automaticamente ad altri livelli. Pertanto, di qualsiasi tema si tratti, sarebbe importante trovare i punti in comune, piuttosto che sottolineare le diversità.

Sempre che si voglia evitare lo scontro ed arrivare ad una ragionevole soluzione.

Certo, i soliti maligni, ogni volta che si rinuncia in massa ad usare la testa, potrebbero chiedersi: cui prodest?


 (Novembre 2009)  

 

 

“Honni soit qui mal y pense”

(Edoardo III d’Inghilterra)

 

Non intendo annoiare con disquisizioni teoriche su “proiezione”, “identificazione proiettiva”, e altri complessi meccanismi che caratterizzano la psiche umana (per questo ci sono trattati ed enciclopedie), ma mi servirò come sempre di esempi pratici e pescati dall’attualità, per ragionare sulla tendenza ad attribuire ad altri idee e sentimenti propri. Meccanismo sano e indispensabile all’empatia, ma che rischia di produrre interpretazioni distorte della realtà quando genera presupposti automatici e deduzioni arbitrarie.

Di recente sono stata coinvolta, mio malgrado e per l’ennesima volta, in un “dibattito” politico in un contesto che avrebbe dovuto essere di stampo disciplinare, cioè attinente alla mia professione. Quando ho dichiarato che non intendevo partecipare al confronto, ho dovuto incassare le rimostranze di chi affermava che il mio pensiero, proprio perché differente, costituiva una ricchezza di cui stavo privando i miei interlocutori. Il presupposto sottinteso era questo: “io credo – quindi tutti credono – che la ‘disponibilità al confronto’  sia un valore; devi ascoltare tutti e confrontarti, sempre e con tutti; altrimenti non sei disponibile, sei snob ed arrogante”. Traspariva la granitica credenza che tale presupposto sia universale e indiscutibile. Se un individuo vede il confronto non come un dogma ma come “strumento” della conoscenza, da utilizzare scegliendo i momenti, i contesti, e soprattutto le persone con cui confrontarsi, viene immediatamente accusato di scegliersi solo interlocutori compiacenti. Escludere che qualcuno possa essere abbastanza onesto da operare una scelta di qualità e non di convenienza, svela un altro presupposto: “io non mi darei mai la zappa sui piedi, perché dovresti farlo tu?”.

Altro esempio di attribuzione automatica di proprie convinzioni ad altri. E’ delle scorse settimane una significativa situazione venutasi a creare in un famoso talent show in cui si sfidavano due squadre. Una squadra era caratterizzata da un scelta di strategie volte a conquistare la vittoria eliminando i più bravi dell’altra squadra. Si può discutere se sia più o meno onorevole vincere non sul merito ma evitando la sfida con gli avversari più pericolosi, ma quello che più faceva impressione (almeno a me) era l’evidente incapacità di credere alla buona fede di chi, nell’altra squadra, giocava in modo diverso, arrivando ad esprimere la propria ammirazione per la bravura degli antagonisti. E’ sincero? E’ falso? Sta recitando? Beh, nessuno ha espresso il minimo dubbio. Bisognava “smascherare” il gioco ipocritamente buonista dell’avversario, secondo questo presupposto: “se tu nemico dici di apprezzarmi e persino mi applaudi, non puoi essere sincero; infatti io, che non sono ipocrita, non lo farei mai. Quindi io sono quello nobile e tu quello falso che vuole ingraziarsi il pubblico”. Come se fosse impossibile anche concepire l’esistenza di una diversa mentalità.  Per la cronaca, quando il vero o presunto buonista si è arrabbiato per questi attacchi, ed è diventato (quasi) cattivo, i suoi detrattori  hanno potuto dire che avevano ragione a pensare che fingeva. Eppure, ad evitare lo scontro - peraltro probabilmente auspicato dagli autori della trasmissione - sarebbe bastato mettere in dubbio il presupposto.

In un lontano periodo della mia vita ho fatto teatro. Ad un concorso nazionale fui premiata con la medaglia d’argento. L’oro andò ad una ragazza di un gruppo milanese; avevo vent’anni e lei 26; avevo assistito al suo spettacolo e mi aveva commosso;  io ero brava, ma lei lo era di più, era più matura, più esperta. Era giusto così e lo dissi con sincerità. Ma era normale, io non ero una “nobile” eccezione; infatti nessuno pensò che la mia ammirazione fosse una captatio benevolentiae e, se pure qualcuno lo avesse pensato, si sarebbe vergognato della propria meschinità. Il presupposto, allora largamente condiviso, era: la lealtà e l’onestà intellettuale sono valori; se vogliamo che gli altri ci considerino onesti e leali, dobbiamo essere disposti a fare altrettanto”.

Vorrei essere smentita su questa mia impressione, ma mi sembra che oggi, rispetto ad un passato non troppo lontano, ci sia una crescente tendenza ad interpretare con malignità atteggiamenti altrui onesti, leali o generosi, bollandoli come ipocriti e anormali. D’altronde come si possono attribuire ad altri convincimenti e intenti positivi, quando, pur inconsapevolmente, se ne ha una personale carenza o se ne è del tutto privi?

Forse anche i meccanismi psicologici più naturali risentono della cultura e del clima sociale dominante?

Forse i buoni sentimenti sono stati aboliti con la messa al bando del libro Cuore? Bisognerà imparare ad esprimerli sottovoce e di nascosto, in qualche segreta carboneria? Sì, anch’io ho detestato Cuore e Piccole donne e Capitani coraggiosi, nella mia adolescenza, nel tempo della ribellione e della “contestazione”. Ma, come per altri bambini incautamente buttati via con l’acqua sporca, ora sento per quelle pagine edificanti e un po’ retoriche una tenerezza e una nostalgia che non sono solo frutto dell’età.

    (Aprile 2010)

 

Le regole della casa

“Questa casa non è un albergo!” Quanti genitori hanno urlato questa frase, esasperati dai comportamenti dei propri figli adolescenti. L’albergo è un luogo di passaggio, e gli ospiti non sono tenuti a comunicare i propri spostamenti; tuttavia, se sono previsti dei pasti, generalmente esistono degli orari e un sistema di prenotazione affinché non vi siano troppi imprevisti che riducano il buon funzionamento del servizio. In una famiglia, pur nel rispetto della libertà individuale, dovrebbe esistere un minimo di programmazione che faciliti, o almeno non ostacoli, la pulizia, il riordino e la preparazione dei pasti, pena una maggior fatica a carico, quasi sempre, della padrona di casa. Ma, si sa, gli adolescenti devono saggiare la propria capacità di “autonomia” e spesso lo fanno senza andare troppo per il sottile. 

 

Alcuni anni fa, in 3 o 4 amici, abbiamo formato un piccolo gruppo teatrale amatoriale, forti delle nostre precedenti esperienze, risalenti agli anni ’70. Per prima cosa abbiamo steso un “manifesto”, con intenti, obiettivi e regole. Un manifesto chiarissimo - tale da non lasciare spazio ad interpretazioni - che richiedeva, a chi volesse aderire, impegno, rigore e condivisione dell’obiettivo primario: discostarci dal modo di fare teatro di tutti gli altri gruppi dello stesso genere, fondati non su una passione comune, ma “usati” per ottenere facili sovvenzioni, o come trampolino di lancio per approdare in televisione, magari come figuranti.

Ebbene, tra quelli che transitavano nel gruppo, attratti dalla gratuità e dai primi risultati – raggiunti tra enormi difficoltà e sacrifici e con dispendio personale anche economico -  c’era sempre qualcuno che cercava di cambiare le regole, chiedeva che le decisioni fossero prese a maggioranza, lamentava che i responsabili del gruppo decidessero tutto loro, che quello non era un metodo democratico, e via contestando, dalla dizione (a che serve?) all’assegnazione dei ruoli (lui ha più battute di me…).

Dopo molti inutili tentativi di far capire che il gruppo non era una cosa “pubblica”, che la sua stessa esistenza era legata al desiderio di fare le cose in modo diverso, e soprattutto che nessuno era stato obbligato ad entrarvi, eravamo infine costretti ad invitare queste persone a cercare altri spazi, più consoni alle loro esigenze. Quale altra scelta avevamo? Mettevamo in campo spiegazioni, ragionamenti, pazienza, logica, persino qualche compromesso. Non serviva a nulla. Fummo accusati di arroganza… Come dire che chi fa rispettare una qualunque regola è un arrogante, e non come individuo (che può essere effettivamente un arrogante) ma solo per il fatto di esercitare un diritto-dovere che è insito nel proprio ruolo.

 

Penso che per un’associazione, o un blog, o un giornale, valga lo stesso ragionamento. Se ad esempio un giornale, cartaceo o virtuale, è gestito privatamente ( = senza soldi pubblici) da volontari che quell’idea l’hanno avuta e realizzata, che la portano avanti mettendoci fatica, tempo, impegno e responsabilità, ebbene, in quel giornale bisognerebbe entrare in punta di piedi, educatamente, come si entra – o si dovrebbe entrare – in casa d’altri. E non se ne rifiutano le regole; si può parlarne, proporre, suggerire, ma l’ultima parola spetta ai “padroni di casa”. D’altra parte, per attivare un blog basta un quarto d’ora e si può dare libero sfogo al proprio pensiero e stabilire proprie regole.

Se si accettano regole pre-esistenti, non si può poi giudicare pesantemente chi quelle regole le ha decise, probabilmente dopo lunghe riflessioni e con profonda convinzione. La vera arroganza sta in chi pretende come un diritto ciò che non è un diritto.

 

Credo sia importante che si distingua tra il diritto alla partecipazione, e anche alla critica, in un ambito pubblico (spesso obbligato), e quello in ambito privato (sempre scelto). Se ho da ridire sulla manutenzione del mio condominio,  ho il diritto di protestare e richiedere un’assemblea per discuterne. Se invece nello stesso condominio sono ospite da amici, non mi metto a spostare i mobili, non critico il menù, non giudico poco “democratici” i padroni di casa perché non mi hanno interpellato sulla scelta dei tappeti. Se conosco i loro gusti, e non li condivido, mi sforzo almeno di rispettarli.

Così come, recandosi in un paese straniero, è buona norma conoscerne gli usi ed evitare tutti quei comportamenti che possono essere ritenuti offensivi dai locali. Se quegli usi non ci piacciono, possiamo andare altrove.

 

Se ognuno rispettasse le regole consolidate di una Casa, di una Società, di una Cultura, chiedendo ovviamente la reciprocità, forse ci sarebbero meno difficoltà nei processi di Accoglienza, Tolleranza, Integrazione, paroloni che rimandano a temi complessi che mi limito a sfiorare, giusto per ricordare che piccoli comportamenti individuali possono provocare grandi cambiamenti sociali, come la famosa farfalla della Teoria della Complessità (Ilya Prigogine).

Non si tratta di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Si tratta di dare la precedenza, in caso di posizioni inconciliabili, al padrone di casa. Sarebbe una regoletta in fondo semplice semplice, capace, se seguita, di evitare tanti inutili conflitti e ridurre l’ostilità, all’interno delle famiglie, così come in qualsiasi altro “sistema”  sociale.

 

   (Maggio 2012)

 

 

 

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