SaggiaMente
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Una citazione - un
verso, un proverbio, una frase celebre -
a conferma del fatto
che da sempre la poesia, la letteratura, la
filosofia, la
saggezza popolare hanno fornito
le basi della
moderna psicologia.
"Non
giudicar la nave stando in terra"
(Proverbio)
Durante
i giorni tristi dello tsunami nel sud-est asiatico, molti
furono gli episodi portati alla ribalta dai mass media.
Alcuni passarono quasi inosservati, compresi piccoli e
grandi atti di eroismo, altri furono più seguiti, più
commentati. In genere gli avvenimenti più sfruttati
in interviste e sondaggi sono quelli in cui è più facile
immedesimarsi e, come è logico, le influenze culturali non
sono marginali. E cosa fa più impressione da noi di
qualcosa che investa il debordante istinto materno delle
mamme italiane?
Mi
riferisco all’episodio in cui una giovane donna, travolta
dall’onda anomala, fu costretta a scegliere quale dei suoi
due bambini tenere stretto a sé, e quale lasciare andare al
proprio destino.
Con
grandissima lucidità, con quella sovrumana forza della
mente e del
cuore che si manifesta solo in
circostanze drammatiche, la madre scelse di tenere il più
piccolo, quello che certamente non avrebbe potuto farcela da
solo. Lasciò andare il più grande, nella speranza che
riuscisse a cavarsela con le sue forze. I fatti le diedero
ragione, perché il bambino più grande riuscì a resistere
finché qualcuno lo aiutò a mettersi in salvo.
Ebbene,
in quei giorni ho sentito una valanga di critiche rivolte a
questa madre: ma come aveva potuto scegliere tra i due? come
aveva potuto lasciare andare un figlio verso una morte quasi
certa? doveva tenerli tutti e due!
E’
stato inutile cercare di far capire ad alcune di queste
persone che se una mano serve ad aggrapparsi, ne resta solo
una per trattenere un solo bambino. E che salvarne uno era
meglio che perderne due... E che, dei due, solo il più
grande aveva qualche possibilità di farcela... E che
naturalmente se quella donna avesse potuto fare
diversamente, l’avrebbe fatto...
Alla
mia domanda: tu che avresti fatto?
la risposta continuava ad essere: li
avrei tenuti tutti e due. Lasciando quasi intendere
che era meglio che morissero tutti e tre.
L’ostinata irragionevolezza di queste reazioni mi ha fatto
ripensare ad altre situazioni in cui scelte difficili e
dolorose si impongono, a volte a chi è preparato e in
qualche misura addestrato ad affrontarle, a volte a chi,
casualmente e improvvisamente, viene messo di fronte a
decisioni che mai avrebbe pensato di dover prendere.
Inevitabilmente, quasi che il riuscire
a ragionare in certe circostanze sia
segno di colpevole insensibilità,
scattano da parte degli spettatori critiche
irrazionali e giudizi sommari. E la domanda:
tu che faresti? resta senza
risposta.
Molti
anni fa lavoravo da poco in ospedale e, in un reparto di
medicina, ho visto un paziente i cui polsi erano assicurati
alle sponde del letto con delle garze. Ho subito immaginato
un titolo in prima pagina: Ospedale lager! Malato legato
al letto! Si trattava di un signore molto molto
anziano, con flebo, ossigeno e vari altri tubicini che
sparivano sotto le lenzuola. Alla caposala che si era
avvicinata, una suora energica e gentile, ho chiesto perché
era legato e lei mi ha risposto che il paziente, affetto da
demenza avanzata, appena libero si strappava tutti i
tubicini e si buttava giù dal letto. E, anticipando la mia
successiva domanda, mi disse: lo so, è triste, ma non
possiamo fare altro, ci vorrebbe una persona accanto a lui,
per ventiquattro ore al giorno. E qui abbiamo 40 ricoverati.
Lei che farebbe?
Immagino che anche ora, leggendo, qualcuno si stia
sconvolgendo-indignando-scandalizzando.
A
questo qualcuno chiedo: lei che
farebbe? di
concretamente fattibile?
Ricordo
uno sceneggiato televisivo che raccontava un episodio vero,
immagino uno dei tanti: un gruppo di persone in fuga, una
madre con il proprio piccolo che piange tra le braccia, il
pericolo di essere scoperti e uccisi tutti. Il pianto del
bambino soffocato, per sempre.
Quante
volte è stato scelto il sacrificio di uno o di pochi per la
salvezza di molti? E in quanti abbiamo provato a metterci
nei panni e nella testa di chi certe decisioni ha dovuto
prenderle e metterle in atto?
Un
ultimo esempio, che vuole essere anche un omaggio, da
collega, al coraggio di quei medici sconosciuti, di guerra o
di pace, di prima linea o di medicina delle catastrofi, che
si trovano a dover decidere in pochi secondi chi aiutare e
chi lasciar morire. Che, inghiottendo come un veleno i
propri sentimenti di pietà, sono costretti a scegliere
secondo una fredda razionale terribile
ma utile logica, quelli che hanno più probabilità di
sopravvivere. Portandosi dentro per sempre certi sguardi, in
assoluta solitudine.
Com' è
semplice giudicare, quando non tocca a noi! Com' è facile
moraleggiare sulle scelte di chi è chiamato a scegliere
senza alcuna possibilità di delegare ad altri le proprie
responsabilità. Com' è comodo far finta che certe decisioni
non siano mai necessarie.
Com' è
rassicurante guardare le navi andar per mare, stando in
terra...
La
verità è che non si vuole sentir parlare di queste realtà.
Ci mettono di fronte all’imbarazzante evidenza dei nostri
limiti, della nostra solitudine nelle scelte davvero
difficili, della nostra infinita imperfezione.
(Marzo 2005)
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