DolorosaMente
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La sofferenza psicologica è insita nell’uomo e va dalle gravi malattie
mentali a quelle situazioni di disagio che tutti, più o meno,
abbiamo sperimentato o di cui abbiamo
comunque sentito parlare
come stress, ansia, panico, fobie.
Peter Pan: uno stile o un
problema?
Tempo
fa rivedevo delle foto di classe del ginnasio. Mi ha colpito
l’abbigliamento. Delle ragazze, ma soprattutto dei ragazzi.
Le ragazze: alcune con il camice nero (allora detto
grembiule), altre no, ma gli abiti erano comunque
“seri”, per lo più gonna e camicetta o maglioncino, calze di
nylon, scarpette con tacco, qualche collana e qualche
braccialetto. Trucco e capelli non particolarmente
appariscenti, ma ben curati. E veniamo ai ragazzi:
praticamente tutti con camicia e cravatta, giacca sportiva
ma giacca, alcuni con maglione o blazer, rigorosamente sopra
la camicia e cravatta.
Ricordo
i miei compagni di scuola con abiti eleganti in occasione di
feste, e li ricordo in maglietta e jeans (c’erano,
c’erano...) in occasione di gite o passeggiate.
Sto
parlando di adolescenti tra i 14 e i 16 anni. Età
testimoniata nelle foto da sorrisi un po’ impacciati e da
spruzzi di “acne giovanile” qua e là. E non ho potuto fare a
meno di pensare agli adolescenti di oggi: quasi inutile
descriverli, li conoscete tutti. Così “anticonformisti”,
così “trasgressivi” con i loro scarponi, i loro zainetti
sempre incollati alla schiena, piercing e tatuaggi esibiti
come trofei. Insomma la loro divisa.
Logico,
le mode cambiano e i giovani di ogni generazione giocano a
fare i trasgressivi, pensando sempre di essere i primi a
farlo.
Il
punto è un altro. In molte società esistevano, ed ancora
esistono, dei rituali, più o
meno primitivi, più o meno elaborati, a seconda del grado di
evoluzione culturale, che segnano il passaggio degli
individui dall’infanzia all’età adulta. Negli anni sessanta,
nel nostro paese, il passaggio
cominciava con l’ingresso alle scuole superiori. Non ricordo
che qualcuno ci desse delle direttive su come abbigliarci,
ma era ovvio che era finito il tempo dei calzettoni e delle
ginocchia sbucciate. Finite le medie o equivalenti,
cominciare a vestirsi da grandi
era una specie di tacita regola, così come era
normale che i professori ci dessero del lei. Va da sé che
non veniva più tanto naturale stravaccarsi o scalmanarsi
vestiti così: ne conseguiva automaticamente anche un
comportamento più posato e composto. Questo non impediva a
nessuno di scatenarsi altrove, nei parchi, al mare, in
discoteca (c’erano, c’erano...). Né mi sembra che ci
sentissimo particolarmente repressi nel vestirci in modo
adeguato alle diverse occasioni.
Certo,
la comodità è importante, vuoi mettere un paio di scarpe da
tennis? E la libertà di una t-shirt? Che c’entra l’età?
Almeno adesso ognuno si veste come gli pare...
D’accordo. Ma perché a nessuno gli
pare di vestirsi “da
adulto”? E perché, se lo fa, gli dicono che si
veste “da vecchio”?
Non sto
dicendo che un abito da adulto faccia diventare adulti, ma
siamo sicuri che non contribuisca? E se non contribuisce,
come mai viene evitato come la peste?
Se non
sempre la forma è sostanza, è pur vero che spesso la forma
diventa sostanza. E ciò avviene quando la forma è un
simbolo, quando rappresenta
qualcosa. Se così non fosse, non avrebbe senso la
maggior parte delle cerimonie e dei riti che
contraddistinguono molti momenti importanti della nostra
vita.
Se al
giorno d’oggi vedere un trentenne girare in tuta e zainetto
non sorprende nessuno, è anche vero che sempre più
frequentemente la sindrome di Peter
Pan conduce i suoi portatori a chiedere aiuto
agli operatori della psiche. Difficoltà ad assumersi
responsabilità, rinvio all’infinito di scelte importanti,
indecisione sulla rotta da seguire e sulle mete da
raggiungere. E ancora disturbi dell’alimentazione, sindromi
ansiose o psicosomatiche che rivelano l’insoddisfazione e la
profonda insicurezza sottostanti, mascherate da
atteggiamenti disinvolti o stravaganti.
Cosa farò da grande? Ci sto
pensando. Una famiglia?
Chissà, vedremo, è presto.
Andarmene da casa? Perché? con i miei sto bene.
Poi, in
un batter d’occhio, arrivano i quaranta. E anche l’angoscia,
l’insonnia, la depressione.
Quand’è
che un ragazzo smette di essere
un ragazzo e diventa adulto?
Una volta, per le donne, c’era un limite segnato dal
matrimonio: infatti si diceva “da signorina” o “da ragazza”
per indicare il periodo prima del matrimonio. Fosse stata
pure una diciottenne, il giorno dopo il matrimonio indossava
il suo bravo tailleurino e veniva promossa al rango di
“donna”, o “signora”. Per gli uomini, anno più anno meno, il
diploma, l’ingresso all’università, oppure il primo lavoro
per chi non studiava, erano le tappe che portavano alla
patente di adultità.
Come
tutti ho seguito la vicenda dei tre italiani presi in
ostaggio in Iraq, e come tutti sono felice per la loro
ritrovata libertà. Persone di quella tempra, non proprio
adolescenti, che fanno un mestiere difficile e pesante, che
avevano scelto di operare in una situazione pericolosa,
addestrate a una vita dura, meriterebbero l’appellativo di
“uomini”. Ebbene, ogni
volta, questi nostri connazionali vengono chiamati
“i ragazzi”. I tre, se non
erro, hanno rispettivamente 34, 35 e 36 anni, eppure tutti,
dalle famiglie alle autorità, ai giornalisti, tutti li
chiamano “ragazzi”. Posso capire che i familiari li chiamino
così: i figli, si sa, per i genitori non crescono mai, posso
capire il moto affettivo che porta a vedere piccolo e
indifeso chi si trova in condizioni di sofferenza fisica o
psichica, ma a me sembra comunque strano che anche tutti gli
altri non usino mai la parola “uomini”. Né viene usata
spesso, fateci caso, in altre circostanze meno emotivamente
coinvolgenti.
Quanto
è responsabile la nostra società di questa
infantilizzazione delle ultime
generazioni?
E
quanti danni sta provocando?
Vorrei
non essere fraintesa su questo punto: non sto rimpiangendo i
vecchi inutili formalismi impregnati di ipocrisia che hanno
caratterizzato la nostra società in epoche lontane e meno
lontane; va benissimo che la giovane signora, smesso l’abito
da sposa, si rimetta i jeans o il giovane avvocato, finito
il lavoro, si rimetta l’orecchino. Ma mi domando: sono
davvero ininfluenti certi atteggiamenti adottati in massa e
senza alcun senso critico, sulla formazione, la crescita
armonica, la serena realizzazione dei giovani?
E non
si tratta, come qualcuno potrebbe obiettare, solo di una
questione lessicale, di linguaggio che si evolve. C’è ben
altro dietro.
Bisogna restare giovani
anzi giovanissimi, non bisogna crescere perché crescere è
rischioso, non bisogna
diventare adulti perché essere adulti vuol dire essere
tristi e pieni di problemi... Se il
messaggio è questo, perché meravigliarsi del
fatto che tanti giovani non vogliano responsabilità, non
vogliano emanciparsi dalla famiglia, non vogliano affrontare
la vita con le proprie forze? Perché meravigliarsi se per
superare la solitudine e la paura vivono attaccati al
cellulare come a un respiratore, e cercano aiuto in sostanze
dannose?
Pensiamoci, quando vediamo un trentacinquenne travestito da
ragazzino: di quanta fragilità abbiamo caricato, noi adulti,
il suo zainetto?
(Giugno 2004)
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