DolorosaMente
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La sofferenza psicologica è insita nell’uomo e va dalle gravi malattie
mentali a quelle situazioni di disagio che tutti, più o meno,
abbiamo sperimentato o di cui abbiamo
comunque sentito parlare
come stress, ansia, panico, fobie.
"Se hai una
buona scusa... non usarla"
*
Fino
a qualche giorno fa carta stampata, radio e TV ci hanno
ossessivamente informati di ogni particolare riguardo ad un
terribile fatto di cronaca: l’assassinio a Milano del medico
psicoterapeuta Lorenzo Bignamini. Non è il primo e non sarà,
purtroppo, l’ultimo crimine del genere, però mi ha
particolarmente colpito, forse perché faccio parte della
stessa associazione di cui Bignamini era presidente. Tra gli
innumerevoli servizi ed interviste diffusi in quei giorni,
mi è rimasto impresso il commento di una vicina di casa
dell’omicida. Era una signora anziana, che raccontava come
questo signore avesse degli accessi d’ira durante i quali
buttava giù dalle finestre pesanti vasi di fiori. Il
commento è stato: “Forse per lui era uno sfogo”.
Questa
frase, di per sé innocente, e pronunciata con rassegnata
pacatezza, come fosse la cosa più naturale del mondo, mi ha
agghiacciata. Mi sono venuti in mente tutti i commenti
analoghi ascoltati a caldo dopo un fatto di cronaca più o
meno grave, ma anche in circostanze decisamente meno
drammatiche, come nei talk show televisivi o nei nostri
domestici tranquilli salotti. Veniamo quotidianamente a
conoscenza di notizie come “picchia il datore di lavoro
perché gli ha negato l’aumento”; “buca le gomme all’auto
del collega che gli ruba il parcheggio”; “spara al
vicino perché tiene lo stereo a palla”; “strangola la
moglie perché vuole lasciarlo”; “fa una strage nella
scuola dove è stato bocciato”.
L’agghiacciante sta nel fatto, non esplicito ma
paradossalmente molto evidente anche se la comunicazione
passa ad un livello subliminale, che tutti questi
perché non rappresentano
semplicemente una spiegazione,
bensì una giustificazione.
Si tratta quasi sempre di persone che hanno subìto delle
ingiustizie; piccole o grandi, vere o presunte, non ha
importanza. Ma passa, sempre più subdolamente e sempre più
pericoloso, il messaggio che chi
subisce un torto debba essere giustificato qualsiasi cosa
faccia.
Nel
caso dell’omicida del medico milanese, si tratta è vero di
una persona dichiaratamente malata, ma la maggior parte dei
protagonisti di atti di violenza sono persone cosiddette
“normali” e infatti quanti
di noi non si sentono in dovere di manifestare umana
comprensione e di attribuire facili attenuanti ad un coniuge
abbandonato o tradito, ad un disoccupato o licenziato, a
chiunque insomma abbia qualche motivo di sofferenza e
talvolta di disperazione e per questo motivo
abbia “perso la testa”?
Ed è
ragionevole: l’umana comprensione non andrebbe negata a
nessuno, neppure al peggiore serial killer. Ma un conto è
comprendere - o
almeno provarci - e un conto è
giustificare. “Giustificare” significa
letteralmente rendere giusto e
legittimo ciò che giusto e legittimo non può e
non deve essere. Non può essere giusto e legittimo sfogare
con la violenza il proprio dolore, non può essere giusto e
legittimo ribellarsi con la violenza ad un’ingiustizia, non
può essere giusto e legittimo cercare di ottenere con la
violenza ciò che si ritiene ci spetti di diritto.
Altrimenti è la barbarie.
Forse
la mia è solo una teoria, ma ho la sensazione che tutto
questo cominci da bambini. Le ultime generazioni -
naturalmente parlo del nostro paese, di altre realtà non so
molto - sono state per un verso molto fortunate: niente
guerre, niente fame, niente problemi di sopravvivenza o di
libertà. Ma per un altro verso quest’assenza di problemi e
di limiti non le ha vaccinate, non le ha preparate alle
difficoltà, ed è sempre più dilagante quella che in termini
tecnici si chiama “intolleranza
alle frustrazioni”. Ai nostri bambini, negli
ultimi decenni, si cerca di evitare noie, sforzi, ostacoli.
Se fanno i capricci li si azzitta con le merendine, se
chiedono l’ultima introvabile playstation si provvede subito
a procuragliela, se vengono ripresi da un insegnante che
pretende un po’ di rispetto si corre a dirgliene quattro, se
vogliono okkupare la scuola si ricarica loro il cellulare e
il portafogli, se sono bocciati si ricorre al TAR...
E poi?
Come faranno quando non otterranno subito il lavoro che
desiderano? O se la fidanzata o la moglie (vale anche per
fidanzati e mariti) decideranno di andarsene per la loro
strada? Quando la
Vita deciderà - senza guardare in faccia nessuno - di
allestire per loro qualche insuccesso, o delusione, o
sconfitta?
Bisogna
cominciare ad insegnare ai bambini a sopportare qualche
smacco, e a parlare parlare
parlare, ad
esprimere con le parole
il dolore e la rabbia, l’ira e la gelosia. E anche l’odio.
Non è vero che le parole uccidono: possono “ferire”, possono
essere sbagliate crudeli ingiuste, ma non uccidono e ad esse
si può, si deve saper rispondere con altre parole, che
possono essere giuste, pacificatrici, persino rivoluzionarie
con la sola forza della coerenza e del raziocinio.
E’ un
lungo difficile lavoro, complicato dal fatto che la capacità
di esprimersi con le parole esige il principio di
reciprocità.
Ma se
non riusciremo a far questo, ci sarà sempre, per ciascuno di
noi, una buona scusa per giustificare ogni nostra azione.
*
Ho messo tra
virgolette questa frase perché non è mia, anche se mi
piacerebbe che lo fosse.
Non ricordo chi
l’ha scritta e non ricordo neppure dove, tanti anni fa, l’ho
letta.
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