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MisteriosaMente

 


 

Dott. Paola Locci

Medico Chirurgo

Specialista in

Psicologia Clinica

Psicoterapeuta

 

 

 

 

 

 

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Sulla psicoterapia...

 

 

La relazione terapeutica  Gli Occhiali

  E' carattere...  Psicoterapia e cambiamento

 

 

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La relazione terapeutica

 

Spesso mi viene fatta questa domanda: "se la psicoterapia consiste nel parlare, perché dovrei raccontare i fatti miei ad una persona sconosciuta invece che ad un amico? che differenza c'è?" E' vero, la parola è lo strumento principale di una psicoterapia, ma le differenze con una chiacchierata tra amici sono numerose. Cercherò di semplificare il più possibile un argomento piuttosto complesso e certamente non esauribile in una paginetta.

Innanzitutto, l'estraneità. Questa dà al terapeuta il grande vantaggio di avere la mente libera da (quasi) tutte  le idee precostituite che ogni individuo ha rispetto ad un altro individuo.  Ho detto "quasi" perché è impossibile eliminarle del tutto. Basti pensare al diverso effetto che può fare una stessa frase, a seconda di chi, conosciuto o sconosciuto, la pronunci: su questo effetto influiscono il sesso, l'età, l'abbigliamento, il luogo di provenienza, l'aspetto fisico, e tanti altri particolari che la nostra mente è pronta a cogliere ed elaborare in modo quasi istantaneo ogni qualvolta incontriamo qualcuno.

Conoscere a fondo una persona, o credere di conoscerla a fondo, amplifica molto questo meccanismo. Nell'interpretare una realtà (una frase, un fatto, una persona), noi siamo fortemente influenzati da ciò che pensiamo di quella realtà. Una bella canzone di Gaber sul grano immutabilmente giallo, diceva: io come biondo, se mi vedi biondo, io come amore, se ti aspetti l’amore, io come buono, se mi vedi buono. Per il terapeuta è essenziale guardare alla persona che gli chiede aiuto come ad una persona totalmente da scoprire.

Questa non-conoscenza ha delle ovvie conseguenze a livello emotivo e qui veniamo al secondo punto importante. La relazione terapeutica non è una relazione di amicizia, ma è diversa dalla relazione che può avere un qualunque altro professionista con il proprio cliente. Il lavoro psicologico si basa infatti sul rapporto personale che si crea  tra due esseri umani, ed è quindi normale, anzi auspicabile,  un certo livello di coinvolgimento emotivo che, però, deve essere mantenuto entro quei limiti che la preparazione e la formazione impongono allo specialista; altrimenti  può diventare un elemento negativo, se non addirittura un ostacolo.  Per questo motivo non si prendono, o non si dovrebbero prendere  in terapia - né medica né psicologica -  parenti e amici.

Un terzo elemento è dato dalla maggiore libertà che  ci dà il parlare con un estraneo, una volta superato l'iniziale riserbo. E' noto il paradosso per cui molte persone scelgono di raccontare in televisione delle cose che non direbbero mai in famiglia. Con un estraneo non dobbiamo salvare la faccia, non dobbiamo sostenere un ruolo, non dobbiamo preoccuparci dei sentimenti che suscitiamo. E' un po' come parlare ad uno specchio che però ci rimanda un'immagine molto più precisa di quella a cui siamo abituati, un'immagine che a volte può arrivare a sorprenderci.

Il coinvolgimento affettivo che è presente in un rapporto di amicizia è inevitabilmente causa di distorsioni nell'interpretazione della realtà, e non consente quella lucidità che serve per aiutare la persona in difficoltà  a vedere le cose come dal di fuori. Nel rapporto di amicizia in fondo cerchiamo altro: la comprensione, la partecipazione, la complicità (anche faziosa), l'affetto.  A volte cerchiamo pareri e consigli. E' importante potersi aprire con un amico, potersi sfogare, ma questo è molto diverso dal "lavoro" sistematico e organizzato che si fa durante una psicoterapia. Un lavoro, o meglio un viaggio dentro se stessi, con la guida del terapeuta, alla ricerca di quei nodi, non così visibili in superficie, che sono alla base del  disagio e della sofferenza. E alla ricerca delle possibili soluzioni che tuttavia non possono essere suggerite dal terapeuta. Si potrebbe dire che uno psicoterapeuta è come un insegnante di scuola guida: insegna a guidare ma non decide la velocità e lo stile di guida, tanto meno decide la destinazione.

 

 

 

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Gli Occhiali

 

Uno dei motivi per cui la psicoterapia è vista spesso con sospetto è che la maggior parte della gente pensa che sia impossibile cambiare: “sono fatto così, che ci posso fare?”, “sono sempre stato così”, “ è carattere” (TeoricaMente 3); di conseguenza è inutile qualsiasi tentativo, visto solo come una perdita di tempo e di denaro.

Questa convinzione porta a due risultati: da un lato non ci si interroga più sul perché si è fatti così, si pensa così, si agisce così. Dall’altro si delega la propria volontà a qualcosa di estremamente vago, ma ineluttabile e incontrollabile, quasi al di sopra e al di fuori di noi, che ci domina e ci costringe ad essere, pensare, agire così.

Quando, nel corso di una terapia, le cose cominciano a "muoversi", e qualche piccolo segnale di cambiamento comincia ad evidenziarsi nella vita della persona che è venuta a chiedermi aiuto, quasi sempre mi sento dire “ma sa che funziona?” con uno stupore proporzionale solo a quella che inizialmente doveva essere una sfiducia totale!

Parallelamente, e solo in apparenza in contrasto con tale convinzione, esiste la paura di essere manipolati, alterati, trasformati contro la propria volontà da un terapeuta dotato - si direbbe - di potenti poteri magici a cui è impossibile opporsi. E’ vero che esistono persone senza scrupoli da cui è bene guardarsi, ma questo è vero per tanti altri settori: immagino che tutti concordiamo sul fatto che la prudenza e l’oculatezza nello scegliere un chirurgo o un avvocato non debbano essere da meno, rispetto alla scelta di uno psicoterapeuta!

Ma che cos’è questo “cambiamento”? Un paragone che uso spesso, perché semplice e facilmente comprensibile, è quello degli occhiali. Se guardo dalla mia finestra e immagino di provare molte paia di occhiali colorati, vedrò il panorama cambiare dal blu al rosa, dal marrone al verde. E’ ovvio che il panorama è sempre lo stesso, ma è il mio modo di vederlo che cambia. Ancor più sarà evidente la differenza se ho un qualche difetto di vista, come la miopia, e allora il paesaggio da confuso e impreciso, messi gli occhiali, diventerà improvvisamente chiaro, nitido, con tutti i particolari individuabili. Ecco: si potrebbe dire che il cambiamento, in termini psicologici, consiste nel trovare gli occhiali giusti per noi: quelli che ci consentono di vedere i colori, la luce, le ombre, i contorni, le sfumature, di non confondere un albero con King Kong, di individuare sentieri nuovi, e trovare varchi magari un po’ nascosti nel muro che pensiamo di avere davanti.

Naturalmente non è così semplice come andare dall’ottico; è necessario trovare la persona giusta e poi impegnarsi, insistere, provare e riprovare, ma se si riesce a superare il primo difficilissimo gradino, quello della sfiducia e della diffidenza, in seguito, questa specie di educazione a mettere a fuoco le cose che ci riguardano, è un processo che andrà avanti tutta la vita, anche quando la “terapia” sarà solo un lontano ricordo. Saper leggere la realtà,  saperla interpretare vedendone tutti gli aspetti e tutta la  complessità, è il primo passo per trovare, in se stessi, le risorse e i modi per risolvere i problemi.

Una psicoterapia non fa scomparire gli ostacoli, non distribuisce tranquillità e certezze, non può certamente cambiare il mondo, ma può aiutare qualcuno, un po’ più in difficoltà di altri, a tirar fuori il meglio di sé, a valorizzare le proprie capacità e potenzialità, a rendere inoffensivi quegli aspetti del carattere che possono produrre - senza alcuna consapevolezza - sofferenza e malessere.

Vi sembra un cambiamento da poco?

 

 

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E' carattere...

 

Quando si descrive una persona, elencandone pregi e difetti, spesso si usano espressioni come: ha un buon carattere, ha un pessimo carattere, ha un carattere debole, ha un caratterino, ha un caratteraccio.  Ma che cos’è il carattere? Come si forma? Ci si nasce? Si può cambiare?

Come nel fisico, ma ancor più che nel fisico, possiamo parlare di una componente innata e di una acquisita. Dai primissimi istanti di vita, un neonato può essere più o meno intraprendente, nei limiti in cui un neonato può esserlo, più o meno pauroso, può attivamente guardarsi intorno o beatamente sonnecchiare, dimostra insomma già delle caratteristiche che, a chi sa osservare, lo rendono differente da un altro. Ma, sempre a chi sa osservare, non sfuggirà che, fin dai primi istanti di vita, inizia, tra il neonato e l’ambiente,  un’interazione estremamente complessa che andrà avanti tutta la vita. Ad esempio, è banalmente intuibile come, anche solo in senso strettamente fisico, un ambiente scuro,  vuoto, con colori spenti, con troppo silenzio o troppo baccano, troppo freddo o troppo caldo, sia molto meno accogliente per un bambino piccolo di un ambiente ben illuminato, con la giusta temperatura, colorato, ricco di oggetti visibili al neonato, animato da rumori piacevoli o addirittura da una bella musica, dai suoni dolci e armonici.  Ancor più è intuibile quanto il comportamento delle persone che accudiscono il bambino sia fondamentale in questa interazione: una persona tranquilla, che fa gesti morbidi, parla con voce tenera, sorride e coccola, viene recepita – anche da un adulto - in modo ben diverso da una persona che si agita, strilla, e sprizza ansia da tutti i pori! Bene, i più piccoli particolari, anche quelli che a noi sembrano del tutto insignificanti,  si imprimono nella mente del neonato e contribuiranno a formare quello che chiamiamo carattere. Minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, il piccolo impara ad abbandonarsi o a difendersi dall’ambiente in cui vive, impara a fidarsi o a temere gli adulti che lo circondano, impara a riconoscere la sicurezza e la serenità e viceversa la tensione e l’ostilità,   impara cioè delle proprie modalità per adattarsi – prima condizione per sopravvivere - al mondo che conosce. I fattori ambientali sono per la mente del bambino l’equivalente degli alimenti per il corpo: un bambino può nascere perfettamente sano, ma poi se non ha a disposizione i nutrienti giusti, le proteine, i carboidrati, i sali minerali, le vitamine, non potrà costruirsi un buon apparato scheletrico ed un'efficiente muscolatura.

Vi sono addirittura degli studi che sostengono che il bambino sente gli stimoli ambientali ancor prima di nascere, e non solo tramite i messaggi chimici che gli arrivano dall’organismo materno, ma proprio dall’esterno attraverso l’involucro protettivo che il corpo materno costituisce.

Vorrei richiamare l’attenzione però  su qualcosa a cui pochi fanno caso:  quelle stesse modalità che apprendiamo da bambini, ce le portiamo appresso – senza accorgercene - tutta la vita, anche quando l’ambiente non è più quello dove siamo nati e cresciuti, anche quando il contesto in  cui ci troviamo a vivere è completamente diverso e richiederebbe diverse modalità . E’ come se, imparato un certo tragitto per andare da casa all’ufficio, lo ripetessimo all’infinito senza curarci del fatto che esistono vie più brevi e meno faticose. In un certo senso, si potrebbe dire che la mente è abitudinaria, ma, essendo anche la tendenza all’abitudinarietà un aspetto del carattere, sarà più o meno accentuata a seconda delle esperienze precoci che abbiamo avuto. Indubbiamente un bambino stimolato ad affrontare novità e cambiamenti, o almeno non eccessivamente frenato nella sua naturale curiosità e voglia di esplorare, sarà un adulto più audace e più capace di adattarsi alle diverse circostanze che si troverà a fronteggiare. 

Ecco perché è sbagliato dire che il carattere non si cambia, perché esattamente con gli stessi meccanismi con cui il carattere si è formato, è possibile modificarlo, o per lo meno è possibile, sempre che lo vogliamo, modificare quegli aspetti del carattere che in qualche modo ci danneggiano e ci rendono la vita difficile. Ma del “cambiamento” parleremo un’altra volta…  

 

 

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Psicoterapia e cambiamento

 

Il “cambiamento” è l’obiettivo di qualsiasi psicoterapia. Cambiamento nella direzione di un maggiore benessere, di una migliore capacità di trovare in se stessi nuove modalità e risorse nell’affrontare la propria vita.

Un momento fondamentale nel cambiamento è quello che sto per descrivere.

Una giovane signora, chiamiamola Armida,  in terapia da circa due anni per una forma depressiva piuttosto seria, mi ha manifestato recentemente, non senza sorpresa, un improvviso netto miglioramento del suo umore e dello stato di salute complessivo.

Le psicoterapie sono strani oggetti, come i computer: talvolta sembra che abbiano una volontà propria. A volte sembra che tutto si sia bloccato, come una specie di lunga sosta in un percorso al buio faticoso e accidentato, e a volte c’è un balzo in avanti e il percorso sembra, improvvisamente, più agevole e meno buio. Se fosse un processo graduale non stupirebbe, dopo tanti mesi o anni di lavoro, ma quello che stupisce è proprio la subitaneità, come quando, solo con gli ultimi pezzi di un puzzle complicato, si riesce finalmente a riconoscere il soggetto raffigurato.

Esiste un termine in psicologia per descrivere questo fenomeno, che è insight, e che infatti ha a che fare anche con la visione.

Spesso le persone mi dicono: io so da sempre certe cose, me le sono ripetute mille volte, ma questo non mi fa stare meglio. Come dice Woody Allen: ho dato migliaia di dollari al mio analista per sapere che odio mia madre, e adesso?  Ma, battute a parte, sapere è una cosa, prendere atto nel profondo è un’altra. La prima attiene al ragionamento, la seconda al piano emozionale, interiore, per dirla con Freud: inconscio. E’ un sapere diverso.

Se vogliamo usare un’altra metafora, è come se dopo essere stati al buio in una stanza di cui si pensa di conoscere ogni particolare, all’improvviso si accendesse una luce che ci consente di vedere veramente, per la prima volta, dove siamo, e ci accorgiamo di quante cose ci fossero sfuggite.

Ho assistito a questo fenomeno numerose volte, e l’ho vissuto io stessa tanto tempo fa, ma ogni volta mi meraviglia, come molti altri aspetti di quell’entità misteriosa che è la nostra psiche.

Non voglio dire che il verificarsi di un insight durante una terapia equivalga alla soluzione di ogni problema. Non dico che da quel momento è tutto risolto, tutto andrà bene, però, anche se non risolutivo, è certamente un evento molto positivo, perché chi ne fa l’esperienza ora sa che tale evento è possibile e che può ripetersi, più e più volte.

Sì, ma a che serve? Giustamente qualcuno potrebbe farmi questa domanda. A questo qualcuno io rispondo proseguendo con la metafora: si sentirebbe più tranquillo in una stanza che conosce bene ma al buio, o nella stessa stanza con la luce accesa? Il buio spaventa da sempre gli esseri umani, è un fatto atavico, ma non meno spaventa il buio nella mente. E per quanto ci faccia paura vedere davvero certe realtà, vederle è comunque meglio del buio.

La prova, nel caso di Armida,  sta nel fatto che, pur non essendo cambiato nulla nella sua difficile quotidianità, ella ha avuto, dopo tanto tempo, una settimana in cui si è sentita decisamente meglio, ha dormito di più dopo anni di insonnia, era meno arrabbiata, meno sofferente. Mi auguro che con il passare dei giorni sia ancora così. Ma se non fosse così, sono quasi certa che Armida non ricadrà nella disperazione: ora sa che è possibile. E’ possibile stare meglio senza che accada nulla di eccezionale, solo perché la mente riesce, per motivi in parte noti e in parte a noi sconosciuti, ad acquietarsi e a farsi una ragione di quanto accade o è accaduto… al suo proprietario.

Arriverei a dire che proprio perché in apparenza non è successo nulla di nuovo, un diverso migliore stato d’animo può essere solo il risultato di qualcosa che è accaduto dentro, non legato cioè ad avvenimenti esterni. Questo è importante. Rendersi conto che la nostra serenità non deve necessariamente dipendere dagli avvenimenti esterni è un forte elemento di rassicurazione. Quando Armida mi ha detto che sono crollate tutte le sue certezze, forse ancora non si rendeva conto di quanto questo sia positivo:  è un’altra dipendenza – forse la più difficile da cui uscire – di cui si sta liberando.

La consapevolezza dell’assoluta precarietà e limitatezza della condizione umana può diventare paradossalmente un fattore di serenità. Pensiamoci: se non ci fa più tanta paura l’ignoto e l’imprevedibile della nostra esistenza, cos’altro può farci paura?

Se poi a questa consapevolezza uniamo la coscienza dei nostri (e altrui) limiti, se cerchiamo di fare del nostro meglio e riusciamo ad accettare i nostri (e altrui) errori e manchevolezze,  ecco che la serenità non appare più come qualcosa di impossibile.

Non voglio essere fraintesa, non sto parlando di un improbabile nirvana; non auspicherei per nessuno uno stato di totale imperturbabilità! Però auspicherei senz’altro un lieve fluttuare tra una ragionevole volontà di combattere ragionevoli battaglie, e una saggia capacità di ritrarsi da cose più grandi di noi, senza vivere tale ripiegamento come una sconfitta.

Le certezze non servono. I punti di riferimento non sono assoluti: il nostro nord è dentro di noi, bisogna solo scoprirlo.

Il cambiamento comincia da qui.

 

 

 

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Lo Psicoterapeuta

 

E’ legittimato ad esercitare la psicoterapia un laureato in medicina o in psicologia che abbia conseguito una specializzazione quadriennale post-lauream presso una

scuola universitaria statale o presso una scuola privata riconosciuta, e che sia iscritto in apposito Albo

presso il proprio Ordine Professionale.

 

Solo i medici sono autorizzati a prescrivere farmaci.

 

Esistono diversi orientamenti teorici e metodologici: psicanalitico, cognitivo-comportamentale,

sistemico-relazionale, e molti altri.

 

E’ compito dello specialista informare il cliente sulla propria

formazione e sull’approccio a cui fa riferimento.

 

 

 

 

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