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"Sì, viaggiare..."

Lettera ad un amico il cui figlio, fresco di laurea, sta per partire e cercare fortuna altrove.

 

Caro amico,

la tua lettera di sfogo gronda dolore e frustrazione e me ne dispiace. Ma se si guarda alle cose da un solo lato, spesso la visione non è completa. Permettimi di suggerirti altri aspetti della questione. Prova per un attimo ad usare un grandangolo invece che uno zoom.

Come si sa, la storia è fatta di corsi e ricorsi, di crisi e riprese, di vacche grasse e di vacche magre.

Noi (io e te) siamo venuti al mondo in un momento storico di ripresa dopo due guerre devastanti. Ripresa sì, ma faticosa, durissima, non dimentichiamolo. Per alcuni più che per altri, come sempre. Non era pensabile, in una famiglia modesta, spesso già sradicata dai luoghi di origine, che i figli restassero a casa fino a 30 anni, non era pensabile che chi davvero voleva studiare non riuscisse a farlo negli anni previsti, se non altro per ottenere delle borse di studio e non pesare oltre sulle già scarse finanze familiari. La parola “sacrificio” non scandalizzava nessuno: era naturale come il sole e la pioggia. “Lavorare” significava chiedersi qual era la domanda, e cercare di rispondere. C’era bisogno di ragionieri, di tecnici, di segretarie, di interpreti? Si studiava da ragioniere, tecnico, segretaria, interprete. Chi poteva si laureava, ma non c'era ancora nel paese un numero di insegnanti, avvocati, medici, architetti, psicologi, ecc. superiore al fabbisogno. E il tirocinio, all’epoca chiamata “gavetta”, era accettato come un’occasione per imparare: tu lavori per me, io ti insegno i segreti del mestiere. I sogni? C’erano, sì che c’erano, ma si mettevano in un cassetto in attesa di tempi migliori. Così è stato per me ma, stai tranquillo, non ti racconterò la mia storia o quella dei miei. Certo anche allora c’erano i privilegiati, le famiglie benestanti e con le “aderenze”, i cui figli anche allora, si chiamavano figli di papà (e, anche allora nessuno che in questo termine, neanche minimamente offensivo, si riconoscesse!). Eppure io non ricordo – e ho un’ottima memoria - tante recriminazioni, tante lamentele, tanto piangersi addosso, come adesso.

Oggi, come allora, molti ragazzi di famiglie modeste si danno da fare da giovanissimi, ben consci di non poter contare a lungo sulla famiglia, imparano a fare “sacrifici”, a rinunciare al superfluo, a non chiedere aiuto se non indispensabile, anche a partire se necessario. Oggi, come allora, ci sono quelli più fortunati, che possono permettersi di studiare con calma, e di fare le vacanze, di comprarsi la macchina e di godere di hobby, sport e divertimenti. E va benissimo così: se i genitori hanno la possibilità di regalare ai figli una vita agiata e piacevole, va bene così. Ma non ne godrebbero immensamente di più, genitori e figli, se fossero consapevoli di questa grande fortuna? E non sarebbero più felici se si rendessero conto che nella vita nulla è dovuto o scontato, senza vivere come un’ingiustizia le aspettative non soddisfatte? Avere quello che si ha, rispetto a milioni di altri, non dovrebbe già essere motivo di soddisfazione e, per quella parte di impegno personale profuso, anche di orgoglio?

Era quasi inevitabile un’epoca di vacche magre, dopo un’epoca di vacche grasse -  molto molto grasse - e ci sarebbe da discutere a lungo sul perché e sul per come, ma non cambia il fatto che la sopravvivenza è da sempre strettamente collegata alla capacità di adeguarsi al contesto. Vale per le piante, gli animali, vale per l’uomo. E il contesto è composto da mille fattori: è davvero ingenuo gridare piove governo ladro, perché nel nostro piccolo giardino non nascono le preziose orchidee che ci aspettavamo, a cui, perbacco! avevamo diritto… Ignorando il resto del mondo, ignorando gli stravolgimenti storici economici e culturali, ignorando insomma la complessità spesso indecifrabile per le nostre piccole menti, dell’esistenza umana su questo piccolo sperduto pianeta. La nostra tendenza a trovare qualcuno con cui prendersela, e lo dico anche a me stessa, non deve farci dimenticare tale complessità.

Se i nostri giovani sono così scontenti e spesso infelici, la responsabilità è di quelli della nostra generazione, perché abbiamo fatto credere loro che tutto era loro dovuto, che la vita era un rincorrersi di splendide opportunità, e che era sufficiente allungare la mano per coglierle. La loro insoddisfazione è lo specchio dell’insoddisfazione di molti di noi.  Per lo meno di quelli che non hanno mai imparato che il bello della vita è la sfida, è mettersi alla prova, è scoprire fino a che punto possiamo spingere il nostro coraggio, fino a che punto possiamo rischiare per esprimere tutte le nostre potenzialità. Però non in una realtà ipotetica, scelta con le caratteristiche che ci piacerebbero, come in un gioco di ruolo, ma nella realtà vera, quella che è toccata per sorte ad ognuno di noi, imprevedibile, incontrollabile.

Se tu riuscirai a vedere in quest’epoca non solo le difficoltà, ma anche le infinite opportunità, se non vivrai la partenza di tuo figlio come una tua perdita ma una sua possibilità di espansione culturale e umana, se tu stesso saprai trarne degli stimoli per il tuo futuro, se comincerai a considerare il tuo presente e quello di tuo figlio in una prospettiva più generale, dove ancora è tutto possibile, il velo nero che hai davanti cambierà colore. I figli dovrebbero essere non il conforto, il sostegno, la compagnia, o come si diceva una volta con un’orribile espressione il bastone della vecchiaia dei propri genitori, ma la spinta vitale che la vecchiaia la arricchisce e la nobilita.

Una vita che non regala rimpianti, più dolorosi delle delusioni e delle sconfitte, non è starsene fermi e al calduccio nella nostra cuccia circondati da quelli che amiamo, è un continuo viaggiare (e non parlo di turismo…), evitando le buche più dure, ma ancor più le facili scorciatoie che non portano da nessuna parte.

Continuare a prendersela con un Paese “vecchio e corrotto”, con una indistinta Società sempre composta da altri, con l’Ingiustizia sempre perpetrata da altri, con la Crisi sempre provocata da altri, in un lamento collettivo che si autoalimenta, non serve a nulla. Ma è più facile. E’ più facile che guardarsi dentro e trovare in noi cause, responsabilità ed errori,  ed anche soluzioni.  E, dopo esserci guardati dentro, cercare di guardarci dal di fuori, come un puntino insignificante nell’immensa foto grandangolare che è la realtà in cui viviamo.

Credimi, non sto cercando di darti lezioni, le tue inquietudini sono le mie, conosco bene la tentazione di mollare tutto, conosco l’amarezza e la disillusione, la fatica di combattere ogni giorno con le proprie paure, ma di una cosa sono certa: meglio la lotta che la fuga, meglio il rischio che l’immobilità. Una famiglia vera non "si sfalda" perché i suoi componenti si sentono liberi di esplorare il mondo, sia quando costretti, sia per curiosità e passione.

Spero che un pizzico della Libertà che sei riuscito a regalare a tuo figlio ti contagi e ti induca ad una maggiore apertura. Verso le tante possibilità che questo nostro complicato momento ci offre, nonostante tutto, e perché no? anche verso la gente, magari quella un tantino  fuori dal coro delle prefiche, e che forse ti metterebbe un po’ in crisi. Con affetto, però…

Per dirla con il nostro amato Battisti

scinderesti poi la gente
quella chiara dalla no
e potresti ripartire
certamente non volare ma viaggiare

sì, viaggiare

Ciao!

 

(Settembre 2010)

 

 

 

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